Un vecchietto in rivolta
VIVA I BIDELLI :: *Gli altri sono "i belli" e noi siamo "i bidelli"* :: Temi politici, sociali ed un po' filosofici
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Un vecchietto in rivolta
“Nascere incendiari e morire pompieri”: questo slogan, che ben si attaglia alla generalità dei tipi umani impegnati in politica, calza senza fare una grinza a quasi tutti i protagonisti dei moti rivoluzionari del '68 e del '77. Eppure, nella mia vita questo percorso è stato compiuto all'incontrario. Infatti io non fui rivoluzionario nella mia stagione giovanile, ma lo sono diventato ora, alle soglie della terza età.Trovo il coraggio di questa lunga confessione pubblica perché da quando esistono i blog ed i “social network”, l'intimismo la fa da padrone nel web.
La cosa più pesante di questa confessione in rete è rivelare la mia età, perché dimostro tanti anni di meno, mi ritrovo single, e, se non fossi cattolico, con tutti i freni del caso, forse direi che posso ancora “cuccare” . Ma non sarei del tutto chiaro a chi mi legge se nascondessi che sono nato nel 1950 (ma nella seconda parte dell'anno!!! ) e che quindi nel 1968 avevo 18 anni. Vissi dunque quell'anno fatidico, massimamente coinvolto nella tempesta. Allora i giovani migliori facevano parte del movimento studentesco, vale a dire erano rivoluzionari, vale a dire erano in maggioranza schiacciante marxisti-leninisti (almeno a Bologna, piazza bollente). Io forse non ero dei migliori, ma i migliori erano i miei migliori amici, e compagni di svaghi. Personalmente non riuscii mai a convincermi della bontà della causa rivoluzionaria, e restai come un pesce fuor d'acqua, rimasi un socialdemocratico, riformista, possibilista. Poche volte soltanto (alcune manifestazioni ed un progetto di occupazione scolastica) potei quindi convergere nell'impegno politico con coloro che sentivo a me affini, e lo erano senz'altro, quanto alla pulsione di rinnovamento e di giustizia sociale. Vissi dunque una difficile condizione di solitudine, che tuttavia mi temprò.
(Continua)
La cosa più pesante di questa confessione in rete è rivelare la mia età, perché dimostro tanti anni di meno, mi ritrovo single, e, se non fossi cattolico, con tutti i freni del caso, forse direi che posso ancora “cuccare” . Ma non sarei del tutto chiaro a chi mi legge se nascondessi che sono nato nel 1950 (ma nella seconda parte dell'anno!!! ) e che quindi nel 1968 avevo 18 anni. Vissi dunque quell'anno fatidico, massimamente coinvolto nella tempesta. Allora i giovani migliori facevano parte del movimento studentesco, vale a dire erano rivoluzionari, vale a dire erano in maggioranza schiacciante marxisti-leninisti (almeno a Bologna, piazza bollente). Io forse non ero dei migliori, ma i migliori erano i miei migliori amici, e compagni di svaghi. Personalmente non riuscii mai a convincermi della bontà della causa rivoluzionaria, e restai come un pesce fuor d'acqua, rimasi un socialdemocratico, riformista, possibilista. Poche volte soltanto (alcune manifestazioni ed un progetto di occupazione scolastica) potei quindi convergere nell'impegno politico con coloro che sentivo a me affini, e lo erano senz'altro, quanto alla pulsione di rinnovamento e di giustizia sociale. Vissi dunque una difficile condizione di solitudine, che tuttavia mi temprò.
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
La mia refrattarietà al pensiero dominante della mia generazione, era determinata da diversi motivi, che cercherò di elencare. In primo luogo la mia generazione credeva nell'odio, inteso come forza sana, come motore della storia. Il marxismo è molto esplicito, circa l'affidamento delle sorti dell'umanità alla pulsione dell'odio, come motore o volano del cambiamento (per realizzare la rivoluzione e trasformare la società, la storia, il mondo). Ed i giovani sessantottini non erano tutti angioletti come li dipinge Mario Capanna, la lezione dell'odio la avevano di certo assimilata, “metabolizzata”. Una carica di aggressività violenta sommergeva ogni dissenso ed ogni semplice dubbio. Personalmente ho sempre preferito l'amore all'odio, ed anche negli anni in cui avevo perduto il fondamento metafisico dell'amore, ossia la fede cristiana, ero tutto impegnato ad inseguire, per lo più inconsapevolmente, l'amore perduto. L'odio e la violenza mi suscitavano una invincibile repulsione.
(Continua)
La mia refrattarietà al pensiero dominante della mia generazione, era determinata da diversi motivi, che cercherò di elencare. In primo luogo la mia generazione credeva nell'odio, inteso come forza sana, come motore della storia. Il marxismo è molto esplicito, circa l'affidamento delle sorti dell'umanità alla pulsione dell'odio, come motore o volano del cambiamento (per realizzare la rivoluzione e trasformare la società, la storia, il mondo). Ed i giovani sessantottini non erano tutti angioletti come li dipinge Mario Capanna, la lezione dell'odio la avevano di certo assimilata, “metabolizzata”. Una carica di aggressività violenta sommergeva ogni dissenso ed ogni semplice dubbio. Personalmente ho sempre preferito l'amore all'odio, ed anche negli anni in cui avevo perduto il fondamento metafisico dell'amore, ossia la fede cristiana, ero tutto impegnato ad inseguire, per lo più inconsapevolmente, l'amore perduto. L'odio e la violenza mi suscitavano una invincibile repulsione.
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Re: Un vecchietto in rivolta
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Per molto tempo comunque sentii il fascino del “pensiero forte” marxista-leninista, delle sue analisi e delle sue massime illuminanti, e la tentazione di lasciarmi vincere, assorbire del tutto da quella fascia di popolazione che era in fondo la mia gente, fare blocco insieme a loro e divertirmi anch'io: la contestazione studentesca del '68 è stata certamente anche una
grande festa, un grande gioco. Prendere o lasciare l'ideale comunista fu per un notevole arco temporale, il mio dubbio amletico. Mentre perdurava questo dubbio, consultai anche un mio venerato maestro di vita e di pensiero, il quale era animato e permeato di carità cristiana, e stava senza tentennamenti dalla parte dei più deboli. “Mario, perché tu non sei comunista?”, gli chiesi. Mi diede una risposta che per me fu illuminante, e della quale feci tesoro: “No, perché FALSI”. “Ci sono anche altri motivi”, soggiunse, “ma il primo è questo: sono falsi. Quella gente ce l'ha come principio: è buono, è giusto, è vero quello che serve alla causa”.
(Continua)
Per molto tempo comunque sentii il fascino del “pensiero forte” marxista-leninista, delle sue analisi e delle sue massime illuminanti, e la tentazione di lasciarmi vincere, assorbire del tutto da quella fascia di popolazione che era in fondo la mia gente, fare blocco insieme a loro e divertirmi anch'io: la contestazione studentesca del '68 è stata certamente anche una
grande festa, un grande gioco. Prendere o lasciare l'ideale comunista fu per un notevole arco temporale, il mio dubbio amletico. Mentre perdurava questo dubbio, consultai anche un mio venerato maestro di vita e di pensiero, il quale era animato e permeato di carità cristiana, e stava senza tentennamenti dalla parte dei più deboli. “Mario, perché tu non sei comunista?”, gli chiesi. Mi diede una risposta che per me fu illuminante, e della quale feci tesoro: “No, perché FALSI”. “Ci sono anche altri motivi”, soggiunse, “ma il primo è questo: sono falsi. Quella gente ce l'ha come principio: è buono, è giusto, è vero quello che serve alla causa”.
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
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L'input ricevuto dal mio venerato maestro ebbe l'effetto in me di un immediato consenso, perché andava a toccare un punto di collisione, di stridore, tra il marxismo e la mia soggettività: una certa difficoltà che avevo sempre percepito anche da solo, ma che avevo voluto rimuovere, ora veniva focalizzata. Nel mio piccolo, io possedevo pur sempre una maggiore potenza teoretica rispetto al mio maestro di vita, il quale era un intuitivo puro, e quando mi misi al lavoro, molto presto fui in grado di riconoscere, definire e “dimostrare” il mio nemico: IL MARXISMO IDENTIFICA LA SFERA ETICA CON LA SFERA POLITICA. Ieri io ero in grado di dimostrare questa tesi (che di certo non è originale), ma non chiedetemi di farlo oggi. Oggi sono troppo vecchio: a mio parere il nostro cervello è come un computer, che come primo automatismo manda al “cestino” i dati che non può più contenere perché “stipato” da nuove nozioni, successivamente immagazzinate. Quando anche il cestino è pieno, vengono cancellati del tutto dalla memoria quei dati che meno interessano. Il “cestino” è quella parte del nostro io che contiene le nozioni “rimosse”, ovvero quelle che con uno sforzo o un artifizio è possibile richiamare alla coscienza; ciò che viene espulso anche dal “cestino” viene perduto per sempre, e si tratta di quello che meno ci interessa. Temo che il mio marxismo sia uscito anche dal cestino: ieri questo pensiero mi serviva infatti per dialogare e reggere il confronto con la mia gente di allora, mentre oggi mi è soltanto di peso, un peso odioso.
Ma riprendiamo il filo: a questo punto scomparve ogni mio dubbio: io amavo troppo la verità per collaborare con un progetto ed una prassi rivoluzionaria che avrebbero portato la MENZOGNA AL POTERE, e forse per sempre. I teorici puri del marxismo-leninismo, i quali sovente erano puri anche di cuore, avevano in un certo senso ragione, quando reclamavano che i comunisti non mangiano i bambini, che gli orrori dello stalinismo e l'invasione dell'Ungheria e della Cecoslovacchia contraddicono la dottrina marxista-leninista (“la rivoluzione non si esporta”...); tuttavia certe “deviazioni” trovano la loro stessa radice e giustificazione in quel pensiero che contraddicono. FINCHE' IDENTIFICHEREMO POLITICA ED ETICA, FINCHE' SAREMO COMUNISTI, INVADEREMO L'UNGHERIA DI TURNO. O compiremo altre nefandezze.
(Continua)
L'input ricevuto dal mio venerato maestro ebbe l'effetto in me di un immediato consenso, perché andava a toccare un punto di collisione, di stridore, tra il marxismo e la mia soggettività: una certa difficoltà che avevo sempre percepito anche da solo, ma che avevo voluto rimuovere, ora veniva focalizzata. Nel mio piccolo, io possedevo pur sempre una maggiore potenza teoretica rispetto al mio maestro di vita, il quale era un intuitivo puro, e quando mi misi al lavoro, molto presto fui in grado di riconoscere, definire e “dimostrare” il mio nemico: IL MARXISMO IDENTIFICA LA SFERA ETICA CON LA SFERA POLITICA. Ieri io ero in grado di dimostrare questa tesi (che di certo non è originale), ma non chiedetemi di farlo oggi. Oggi sono troppo vecchio: a mio parere il nostro cervello è come un computer, che come primo automatismo manda al “cestino” i dati che non può più contenere perché “stipato” da nuove nozioni, successivamente immagazzinate. Quando anche il cestino è pieno, vengono cancellati del tutto dalla memoria quei dati che meno interessano. Il “cestino” è quella parte del nostro io che contiene le nozioni “rimosse”, ovvero quelle che con uno sforzo o un artifizio è possibile richiamare alla coscienza; ciò che viene espulso anche dal “cestino” viene perduto per sempre, e si tratta di quello che meno ci interessa. Temo che il mio marxismo sia uscito anche dal cestino: ieri questo pensiero mi serviva infatti per dialogare e reggere il confronto con la mia gente di allora, mentre oggi mi è soltanto di peso, un peso odioso.
Ma riprendiamo il filo: a questo punto scomparve ogni mio dubbio: io amavo troppo la verità per collaborare con un progetto ed una prassi rivoluzionaria che avrebbero portato la MENZOGNA AL POTERE, e forse per sempre. I teorici puri del marxismo-leninismo, i quali sovente erano puri anche di cuore, avevano in un certo senso ragione, quando reclamavano che i comunisti non mangiano i bambini, che gli orrori dello stalinismo e l'invasione dell'Ungheria e della Cecoslovacchia contraddicono la dottrina marxista-leninista (“la rivoluzione non si esporta”...); tuttavia certe “deviazioni” trovano la loro stessa radice e giustificazione in quel pensiero che contraddicono. FINCHE' IDENTIFICHEREMO POLITICA ED ETICA, FINCHE' SAREMO COMUNISTI, INVADEREMO L'UNGHERIA DI TURNO. O compiremo altre nefandezze.
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Qualcuno che mi ha letto fin qui, potrebbe eccepire: “ma Davide, proprio tu? Proprio tu, che hai sempre predicato il criterio della verità, come base esclusiva di ogni visione del mondo? TU che hai sempre ricordato a tutti il primato della ragione teoretica sull'emozione e sul sentimento, relativamente a queste opzioni? Tu che hai sempre ripetuto che una “Weltanschauung” si sceglie in base al criterio “VERO-FALSO” e non “BELLO-BRUTTO (o “piacevole-spiacevole”, “conveniente-non conveniente”)? Ma ti rendi conto che stai confessando di aver valutato, e quindi bocciato, il marxismo sulla base dei tuoi gusti e/o sentimenti, anziché riflettere circa il suo contenuto di verità?
(Continua)
Qualcuno che mi ha letto fin qui, potrebbe eccepire: “ma Davide, proprio tu? Proprio tu, che hai sempre predicato il criterio della verità, come base esclusiva di ogni visione del mondo? TU che hai sempre ricordato a tutti il primato della ragione teoretica sull'emozione e sul sentimento, relativamente a queste opzioni? Tu che hai sempre ripetuto che una “Weltanschauung” si sceglie in base al criterio “VERO-FALSO” e non “BELLO-BRUTTO (o “piacevole-spiacevole”, “conveniente-non conveniente”)? Ma ti rendi conto che stai confessando di aver valutato, e quindi bocciato, il marxismo sulla base dei tuoi gusti e/o sentimenti, anziché riflettere circa il suo contenuto di verità?
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
...ma quanto al “contenuto di verità”, il marxismo, pur con i suoi pregi teoretici, e contributi che ha arrecato alla conoscenza, poteva anche apparire a prima vista “una patacca”, già in quegli anni che andiamo rievocando. Ho un ricordo sbiadito delle inoppugnabili argomentazioni anti-marxiane ed antimarxiste che ben pochi allora volevano ascoltare ma nessuno sapeva smontare o contraddire efficacemente (l'antimarxismo nella mia mente è finito nel cestino, trascinatovi dalla sua antitesi). Ho un vago ricordo del medioevo italiano che non poteva essere spiegato con le categorie del materialismo storico; ho un ricordo più chiaro della pretesa del marxismo di essere scienza e non ideologia. Nel rivendicare la propria scientificità il marxismo faceva riferimento all'epistemologia della sua epoca, e quindi al criterio di predittività: una teoria è scientifica se riesce a prevedere i fenomeni. Ma le grandi previsioni marxiane non si erano avverate: per dirne una, la prima rivoluzione proletaria si era verificata, non nel mondo industrializzato, ma in una società agricola. Il marxismo appariva IN PARTE non veritiero ai pochi che lo guardavano senza lenti deformanti. Ma le masse, anche quelle degli intellettuali e degli studenti, seguivano la moda, perché questo pensiero andava di moda, ed era anzi l'unica moda in campo culturale. La moda faceva quindi sostituire all'autentico, robusto ed ostico pensiero di Marx, Engels e Lenin, la sua “vulgata” o rappresentazione sociale. E quasi tutti in quegli anni aderivano al marxismo non perché fosse veritiero, ma perché era “bello”, perché piaceva a livello emotivo; d'altra parte, io oso affermare che TUTTO IL COMUNISMO ITALIANO E' STATO DETTATO PER TANTI ANNI, NON DALLA POVERTA' NE' DALLO SFRUTTAMENTO, E NEMMENO DALLA DOTTRINA. E' STATO SOLO UN GIGANTESCO FATTO EMOTIVO..............................................................................
Ecco spiegato perché ho affrontato il tema facendo un principale riferimento alla mia sfera non-razionale: la mia componente razionale infatti a dir poco dubitava, trovando ostacoli insormontabili, come succedeva a chiunque si mettesse a riflettere con la testa e non con il cuore; la mia parte emotiva invece voleva farsi vincere dalla stessa ondata che travolgeva la mia generazione. Avrei voluto andare sotto insieme ai miei naturali “compagni”, avrei voluto lottare e giocare insieme a loro.
Ho raccontato dunque per prime, ed ho posto in evidenza, le “ragioni del cuore”, perché le altre sono auto-evidenti; motivazioni di questo tipo inoltre hanno fatto la storia della mia generazione.
(Continua)
...ma quanto al “contenuto di verità”, il marxismo, pur con i suoi pregi teoretici, e contributi che ha arrecato alla conoscenza, poteva anche apparire a prima vista “una patacca”, già in quegli anni che andiamo rievocando. Ho un ricordo sbiadito delle inoppugnabili argomentazioni anti-marxiane ed antimarxiste che ben pochi allora volevano ascoltare ma nessuno sapeva smontare o contraddire efficacemente (l'antimarxismo nella mia mente è finito nel cestino, trascinatovi dalla sua antitesi). Ho un vago ricordo del medioevo italiano che non poteva essere spiegato con le categorie del materialismo storico; ho un ricordo più chiaro della pretesa del marxismo di essere scienza e non ideologia. Nel rivendicare la propria scientificità il marxismo faceva riferimento all'epistemologia della sua epoca, e quindi al criterio di predittività: una teoria è scientifica se riesce a prevedere i fenomeni. Ma le grandi previsioni marxiane non si erano avverate: per dirne una, la prima rivoluzione proletaria si era verificata, non nel mondo industrializzato, ma in una società agricola. Il marxismo appariva IN PARTE non veritiero ai pochi che lo guardavano senza lenti deformanti. Ma le masse, anche quelle degli intellettuali e degli studenti, seguivano la moda, perché questo pensiero andava di moda, ed era anzi l'unica moda in campo culturale. La moda faceva quindi sostituire all'autentico, robusto ed ostico pensiero di Marx, Engels e Lenin, la sua “vulgata” o rappresentazione sociale. E quasi tutti in quegli anni aderivano al marxismo non perché fosse veritiero, ma perché era “bello”, perché piaceva a livello emotivo; d'altra parte, io oso affermare che TUTTO IL COMUNISMO ITALIANO E' STATO DETTATO PER TANTI ANNI, NON DALLA POVERTA' NE' DALLO SFRUTTAMENTO, E NEMMENO DALLA DOTTRINA. E' STATO SOLO UN GIGANTESCO FATTO EMOTIVO..............................................................................
Ecco spiegato perché ho affrontato il tema facendo un principale riferimento alla mia sfera non-razionale: la mia componente razionale infatti a dir poco dubitava, trovando ostacoli insormontabili, come succedeva a chiunque si mettesse a riflettere con la testa e non con il cuore; la mia parte emotiva invece voleva farsi vincere dalla stessa ondata che travolgeva la mia generazione. Avrei voluto andare sotto insieme ai miei naturali “compagni”, avrei voluto lottare e giocare insieme a loro.
Ho raccontato dunque per prime, ed ho posto in evidenza, le “ragioni del cuore”, perché le altre sono auto-evidenti; motivazioni di questo tipo inoltre hanno fatto la storia della mia generazione.
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Eravamo negli ultimi anni '80, da molto tempo era finito il movimento del'68, e pure quello del'77, quando raccolsi le confidenze di un amico più giovane di me di diversi anni, il quale era stato un leader nel secondo tentativo rivoluzionario. Questo “compagno” fece una autocritica molto onesta, quando mi disse: “il nostro più grave errore, che ci ha condannato alla sconfitta, è stato quello di una totale intransigenza ideologica, ammettere nel movimento e come compagni di lotta, solo coloro che erano di ideologia marxista-leninista. Per tentare di vincere, bisognava accogliere tutti quelli che erano “di sinistra”, che volevano un rinnovamento profondo della società, ovviamente senza arrivare all'eccesso di prendere con noi qualsiasi forza di contestazione: non avremmo mai potuto allearci con gruppi come “Comunione e liberazione””.
(Continua)
Eravamo negli ultimi anni '80, da molto tempo era finito il movimento del'68, e pure quello del'77, quando raccolsi le confidenze di un amico più giovane di me di diversi anni, il quale era stato un leader nel secondo tentativo rivoluzionario. Questo “compagno” fece una autocritica molto onesta, quando mi disse: “il nostro più grave errore, che ci ha condannato alla sconfitta, è stato quello di una totale intransigenza ideologica, ammettere nel movimento e come compagni di lotta, solo coloro che erano di ideologia marxista-leninista. Per tentare di vincere, bisognava accogliere tutti quelli che erano “di sinistra”, che volevano un rinnovamento profondo della società, ovviamente senza arrivare all'eccesso di prendere con noi qualsiasi forza di contestazione: non avremmo mai potuto allearci con gruppi come “Comunione e liberazione””.
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
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Io ho vissuto il '77 soltanto come spettatore curioso, mentre ho trascorso il '68 con ben altro coinvolgimento. Del '68, per così dire, “me ne intendo”. Posso quindi asserire che la critica che il mio giovane amico muoveva al proprio passato politico, critica rievocata nel post precedente, se è una osservazione azzeccata (e io non dubito che lo sia, perché l'intolleranza dogmatica, la carica di violenza ideologica giovanile del '77 ha avuto un' eco e lasciato tracce anche all'esterno del movimento studentesco), è in buona parte riferibile anche al popolo sessantottino. Checché ne pensi Mario Capanna. Quest'ultimo fu uno dei leaders più impegnati nel primo dei due moti rivoluzionari falliti, uno che ha pagato alti prezzi personali. Appare dunque, quanto meno un azzardo presuntuoso affermare che lo scrivente conosca “il '68” meglio di Capanna, il quale è uno dei padri fondatori e dei martiri di quel movimento. Capanna è una persona bella, di buona volontà e di nobili sentimenti, in limpidissima buona fede, ma è irrimediabilmente un poeta, un sognatore. Un individuo incapace di entrare in contatto con la realtà, senza trasfigurarla soggettivamente. Quando scrive che il movimento sessantottino non era di esclusiva matrice marxista-leninista, ma era autenticamente PLURALISTA, era la convergenza di diverse identità, in questo sproposito lui ci crede. Quando, per dimostrare questo assunto, ricorda che lui stesso e molti altri non erano materialisti ma cattolici, dice parzialmente il vero. Ma non ricorda che in una intervista ad un rotocalco borghese lui stesso affermò di non essere cattolico come lo era Paolo VI. Qui siamo al punto critico: i cattolici allora potevano affiancare i marxisti leninisti nel tentativo rivoluzionario, soltanto rinnegando il proprio pontefice, e quindi snaturandosi come cattolici. Mantenendo dunque soltanto l'etichetta “SONO CATTOLICO”. Certamente nell'università di Parma occupata, Don Tonino Moroni, docente e sacerdote contestatore, celebrava la Messa domenicale, ma...ma...ma...io ho conosciuto un movimento studentesco che comprendeva, oltre all'identità preponderante, altri soggetti (come i cattolici e gli anarchici), non perché queste identità fossero rispettate, ma perché non c'era tempo per combatterle, fintanto che non “rompevano”.
Questa, la realtà ideologica giovanile di allora, per come io la ricordo e per come la percepii in quegli anni. Ammetto senz'altro l'ipotesi che il difetto che mi sono permesso di attribuire al grande Mario Capanna, ovvero l'involontaria trasfigurazione soggettiva del reale, sia una mia proiezione: postuliamo pure che sia stato il piccolo Davide Selis, anziché il grande, mitico leader carismatico appena citato, a non vederci chiaro, a non saper “LEGGERE” la realtà sociale, a non capire la propria generazione. Ma giova ricordare che sto facendo una narrazione IN CHIAVE DELIBERATAMENTE SOGGETTIVA; ed inoltre...io debbo necessariamente costruire la mia condotta sulla base delle mie percezioni e dei miei giudizi, anche se sono errati: non posso muovermi con la psiche degli altri.
A quell'epoca io avevo abbandonato il cristianesimo e non lo avevo ancora ritrovato; ero uno scettico, innamorato dello scetticismo. Ma anelavo ad avere una visione del mondo, la cercavo incessantemente, e, se la avessi trovata, avrei voluto che non fosse subalterna a nessun' altra concezione dominante o maggiormente in voga; avrei voluto poter sbandierare il mio credo in tutte le sue facce, valenze ed implicazioni, senza chiedere il permesso a nessuno. Avrei voluto vivere con pari dignità' nei confronti dei marxisti-leninisti, nel caso probabile che non fossi riuscito a divenire uno di loro. Avrei voluto vivere, socializzare e lottare senza chiedere di essere accettato “lo stesso”, senza chiedere perdono per la mia diversità. Io ho un'indole fiera, è la mia fregatura.
(Continua)
Io ho vissuto il '77 soltanto come spettatore curioso, mentre ho trascorso il '68 con ben altro coinvolgimento. Del '68, per così dire, “me ne intendo”. Posso quindi asserire che la critica che il mio giovane amico muoveva al proprio passato politico, critica rievocata nel post precedente, se è una osservazione azzeccata (e io non dubito che lo sia, perché l'intolleranza dogmatica, la carica di violenza ideologica giovanile del '77 ha avuto un' eco e lasciato tracce anche all'esterno del movimento studentesco), è in buona parte riferibile anche al popolo sessantottino. Checché ne pensi Mario Capanna. Quest'ultimo fu uno dei leaders più impegnati nel primo dei due moti rivoluzionari falliti, uno che ha pagato alti prezzi personali. Appare dunque, quanto meno un azzardo presuntuoso affermare che lo scrivente conosca “il '68” meglio di Capanna, il quale è uno dei padri fondatori e dei martiri di quel movimento. Capanna è una persona bella, di buona volontà e di nobili sentimenti, in limpidissima buona fede, ma è irrimediabilmente un poeta, un sognatore. Un individuo incapace di entrare in contatto con la realtà, senza trasfigurarla soggettivamente. Quando scrive che il movimento sessantottino non era di esclusiva matrice marxista-leninista, ma era autenticamente PLURALISTA, era la convergenza di diverse identità, in questo sproposito lui ci crede. Quando, per dimostrare questo assunto, ricorda che lui stesso e molti altri non erano materialisti ma cattolici, dice parzialmente il vero. Ma non ricorda che in una intervista ad un rotocalco borghese lui stesso affermò di non essere cattolico come lo era Paolo VI. Qui siamo al punto critico: i cattolici allora potevano affiancare i marxisti leninisti nel tentativo rivoluzionario, soltanto rinnegando il proprio pontefice, e quindi snaturandosi come cattolici. Mantenendo dunque soltanto l'etichetta “SONO CATTOLICO”. Certamente nell'università di Parma occupata, Don Tonino Moroni, docente e sacerdote contestatore, celebrava la Messa domenicale, ma...ma...ma...io ho conosciuto un movimento studentesco che comprendeva, oltre all'identità preponderante, altri soggetti (come i cattolici e gli anarchici), non perché queste identità fossero rispettate, ma perché non c'era tempo per combatterle, fintanto che non “rompevano”.
Questa, la realtà ideologica giovanile di allora, per come io la ricordo e per come la percepii in quegli anni. Ammetto senz'altro l'ipotesi che il difetto che mi sono permesso di attribuire al grande Mario Capanna, ovvero l'involontaria trasfigurazione soggettiva del reale, sia una mia proiezione: postuliamo pure che sia stato il piccolo Davide Selis, anziché il grande, mitico leader carismatico appena citato, a non vederci chiaro, a non saper “LEGGERE” la realtà sociale, a non capire la propria generazione. Ma giova ricordare che sto facendo una narrazione IN CHIAVE DELIBERATAMENTE SOGGETTIVA; ed inoltre...io debbo necessariamente costruire la mia condotta sulla base delle mie percezioni e dei miei giudizi, anche se sono errati: non posso muovermi con la psiche degli altri.
A quell'epoca io avevo abbandonato il cristianesimo e non lo avevo ancora ritrovato; ero uno scettico, innamorato dello scetticismo. Ma anelavo ad avere una visione del mondo, la cercavo incessantemente, e, se la avessi trovata, avrei voluto che non fosse subalterna a nessun' altra concezione dominante o maggiormente in voga; avrei voluto poter sbandierare il mio credo in tutte le sue facce, valenze ed implicazioni, senza chiedere il permesso a nessuno. Avrei voluto vivere con pari dignità' nei confronti dei marxisti-leninisti, nel caso probabile che non fossi riuscito a divenire uno di loro. Avrei voluto vivere, socializzare e lottare senza chiedere di essere accettato “lo stesso”, senza chiedere perdono per la mia diversità. Io ho un'indole fiera, è la mia fregatura.
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
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Come si diceva, io da giovane non riuscivo a risolvermi a diventare marxista; invidiavo dunque i miei coetanei che ci riuscivano con tanta facilità. Fra i motivi di repulsione del marxismo da parte della mia coscienza, vi era anche il determinismo meccanicistico soffocante, quella maledetta triade dialettica (tesi-antitesi-sintesi) che avrebbe dovuto generare tutta la realtà futura, in un modo unico, coercitivo e senza scampo (e tuttavia, in un modo che la storia aveva già contraddetto). Io sono sempre stato innamorato della libertà, oltre che della verità. Il fondamento teorico della libertà umana, ovvero il “libero arbitrio” dei cristiani, io lo avevo già perduto insieme alla fede, ma lo stavo allora inseguendo, più o meno consapevolmente, così come stavo ricercando la fede perduta. Nel mio piccolo, sono sempre stato troppo onesto per perseguire ad un tempo due mete opposte, un valore ed il suo contrario, la libertà dell'uomo ed il determinismo.
Ho fin qui rievocato alcuni dei motivi più nobili che mi inducevano a dissociarmi dal grande progetto-sogno rivoluzionario, tanto in voga nel 1968 e negli anni successivi. Ma avevo pure prefigurato, nel presentare questo topic, una confidenza-confessione piena e sincera. Non posso dunque tacere su motivi di altro tipo, anche perché sono un essere umano, ed è del tutto normale che anch'io abbia delle motivazioni, non nobilissime ma appunto “umane”. In questa confessione più imbarazzante, mi viene in soccorso un cantautore: infatti, molti anni dopo il '68, Eugenio Finardi compose una bellissima canzone intitolata “CUBA”, che mi è utile rievocare adesso:
“Forse è vero che a Cuba non c'è il paradiso
che non vorremmo essere in Cina a coltivare riso
che sempre più spesso ci si trova a dubitare
se in questi anni non abbiamo fatto altro che
sognare..........................................................”.
Quando uscì questo testo, io ebbi una reazione ambivalente. Una metà di me avrebbe voluto abbracciare Finardi con riconoscenza e commozione; l'altra parte di me stesso invece, avrebbe voluto aggredirlo con veemenza: “Ma bravo, ma bravi “compagni”!!! Ci arrivate adesso, a capire che non vorreste essere in Cina né a Cuba! Che non avete fatto altro che sognare! Io queste cose le ho sempre sapute, mentre voi vi divertivate, mentre voi appunto “sognavate”. Io ho rinunciato per coscienza e serietà al grande sogno della mia generazione, ho rinunciato ad una meravigliosa giovinezza euforica”.
(Continua)
Come si diceva, io da giovane non riuscivo a risolvermi a diventare marxista; invidiavo dunque i miei coetanei che ci riuscivano con tanta facilità. Fra i motivi di repulsione del marxismo da parte della mia coscienza, vi era anche il determinismo meccanicistico soffocante, quella maledetta triade dialettica (tesi-antitesi-sintesi) che avrebbe dovuto generare tutta la realtà futura, in un modo unico, coercitivo e senza scampo (e tuttavia, in un modo che la storia aveva già contraddetto). Io sono sempre stato innamorato della libertà, oltre che della verità. Il fondamento teorico della libertà umana, ovvero il “libero arbitrio” dei cristiani, io lo avevo già perduto insieme alla fede, ma lo stavo allora inseguendo, più o meno consapevolmente, così come stavo ricercando la fede perduta. Nel mio piccolo, sono sempre stato troppo onesto per perseguire ad un tempo due mete opposte, un valore ed il suo contrario, la libertà dell'uomo ed il determinismo.
Ho fin qui rievocato alcuni dei motivi più nobili che mi inducevano a dissociarmi dal grande progetto-sogno rivoluzionario, tanto in voga nel 1968 e negli anni successivi. Ma avevo pure prefigurato, nel presentare questo topic, una confidenza-confessione piena e sincera. Non posso dunque tacere su motivi di altro tipo, anche perché sono un essere umano, ed è del tutto normale che anch'io abbia delle motivazioni, non nobilissime ma appunto “umane”. In questa confessione più imbarazzante, mi viene in soccorso un cantautore: infatti, molti anni dopo il '68, Eugenio Finardi compose una bellissima canzone intitolata “CUBA”, che mi è utile rievocare adesso:
“Forse è vero che a Cuba non c'è il paradiso
che non vorremmo essere in Cina a coltivare riso
che sempre più spesso ci si trova a dubitare
se in questi anni non abbiamo fatto altro che
sognare..........................................................”.
Quando uscì questo testo, io ebbi una reazione ambivalente. Una metà di me avrebbe voluto abbracciare Finardi con riconoscenza e commozione; l'altra parte di me stesso invece, avrebbe voluto aggredirlo con veemenza: “Ma bravo, ma bravi “compagni”!!! Ci arrivate adesso, a capire che non vorreste essere in Cina né a Cuba! Che non avete fatto altro che sognare! Io queste cose le ho sempre sapute, mentre voi vi divertivate, mentre voi appunto “sognavate”. Io ho rinunciato per coscienza e serietà al grande sogno della mia generazione, ho rinunciato ad una meravigliosa giovinezza euforica”.
(Continua)
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Un altro mio maestro, oltre quello citato più sopra, era uno psicologo-psicoterapeuta qualificato. Mi insegnò molte cose sulle dinamiche dei comportamenti, e ricevetti da lui anche questa semplicissima nozione: L'EROISMO SI ATTUA NELL'ANDAR DELIBERATAMENTE CONTRO SE STESSI, CONTRO UNA PARTE DI SÉ. Fu dunque un comportamento eroico , quello dei sopravvissuti al disastro aereo nelle Ande, i quali per sopravvivere ulteriormente mangiarono i corpi dei loro amici deceduti; sarebbe stato altresì eroico, nelle stesse circostanze estreme, se dei musulmani avessero mangiato della carne di maiale, qualora ve ne fosse stata e fosse stato l'unico cibo.
Anche i codici etici più severi ammettono che l'eroismo non si può pretendere da nessuno. Nessuno quindi può criticarmi se negli anni successivi al '68, quando esistevano ancora le classi sociali ed io ero un “privilegiato piccolo-borghese”, non me la sentivo di abbandonare per mia scelta le mie comodità di vita per “proletarizzarmi”, per mettermi a fare l'operaio di fabbrica alla pari dei veri salariati, dei veri “proletari”. Il lavoro intellettuale come professione restava un mio sogno. Questa è una delle motivazioni “meno nobili” alle quali ho fatto riferimento nel post precedente.
(Continua)
Un altro mio maestro, oltre quello citato più sopra, era uno psicologo-psicoterapeuta qualificato. Mi insegnò molte cose sulle dinamiche dei comportamenti, e ricevetti da lui anche questa semplicissima nozione: L'EROISMO SI ATTUA NELL'ANDAR DELIBERATAMENTE CONTRO SE STESSI, CONTRO UNA PARTE DI SÉ. Fu dunque un comportamento eroico , quello dei sopravvissuti al disastro aereo nelle Ande, i quali per sopravvivere ulteriormente mangiarono i corpi dei loro amici deceduti; sarebbe stato altresì eroico, nelle stesse circostanze estreme, se dei musulmani avessero mangiato della carne di maiale, qualora ve ne fosse stata e fosse stato l'unico cibo.
Anche i codici etici più severi ammettono che l'eroismo non si può pretendere da nessuno. Nessuno quindi può criticarmi se negli anni successivi al '68, quando esistevano ancora le classi sociali ed io ero un “privilegiato piccolo-borghese”, non me la sentivo di abbandonare per mia scelta le mie comodità di vita per “proletarizzarmi”, per mettermi a fare l'operaio di fabbrica alla pari dei veri salariati, dei veri “proletari”. Il lavoro intellettuale come professione restava un mio sogno. Questa è una delle motivazioni “meno nobili” alle quali ho fatto riferimento nel post precedente.
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Re: Un vecchietto in rivolta
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Io non trovavo in me il coraggio, non avevo la forza per fare un certo “salto di qualità”, per perdere i privilegi piccolo-borghesi e scambiarli con la durezza delle condizione operaia o contadina. D'altra parte, nemmeno la teoria marxista prevedeva che dovessi essere proprio io, a fare la rivoluzione: io che avevo da rimetterci in benessere e comodità. Mi chiedevo, ammirato, sbalordito e con invidia, come facesse la parte migliore dei miei coetanei ad essere così sicura di volersi “proletarizzare”, rieducare nei campi (a mo' della tanto decantata rivoluzione culturale cinese, la quale era un modello indiscusso) o nel terribile lavoro di fabbrica (che a quell'epoca era ancora più duro di oggi), attuando lo slogan “operai a scuola, studenti in officina – faremo l'Italia come la Cina”. Il mio sconcerto crebbe ancora, come pure l'indignazione, quando una certa estate andai a raccogliere la frutta nei campi, alla pari dei braccianti agricoli salariati, assieme ad un gruppetto di amici miei che erano “compagni”, erano i “migliori”. In quell'occasione vidi crollare i maoisti per la durezza dello sforzo, sforzo al quale non erano allenati, come non lo ero io. Io strinsi i denti, e vidi con stupore che i “compagni” si ritirarono prima di me, e lo fecero con assoluta disinvoltura..................................................................................
Il mio sconcerto crebbe ancora, quando seguii le lezioni universitarie di un noto cattedratico estremista, il quale non perdeva occasione per esortare i suoi allievi a preparare la rivoluzione. In un momento di autenticità, costui ammise, con assoluta naturalezza ed incredibile candore, che lui stesso aveva scelto nella vita una professione intellettuale, per fare un lavoro meno duro di un salariato; attribuì questa motivazione anche alla totalità dei suoi studenti. Questi ultimi, che formavano una classe scolastica-polveriera, sempre pronta a contestare tutto, si lasciarono descrivere così senza fiatare.......................................................................................................
Vi furono altri episodi sconcertanti di questo tipo, che non starò ad elencare, poi arrivò Finardi, con la sua confessione sincera, riportata nel post precedente.
(Continua)
Io non trovavo in me il coraggio, non avevo la forza per fare un certo “salto di qualità”, per perdere i privilegi piccolo-borghesi e scambiarli con la durezza delle condizione operaia o contadina. D'altra parte, nemmeno la teoria marxista prevedeva che dovessi essere proprio io, a fare la rivoluzione: io che avevo da rimetterci in benessere e comodità. Mi chiedevo, ammirato, sbalordito e con invidia, come facesse la parte migliore dei miei coetanei ad essere così sicura di volersi “proletarizzare”, rieducare nei campi (a mo' della tanto decantata rivoluzione culturale cinese, la quale era un modello indiscusso) o nel terribile lavoro di fabbrica (che a quell'epoca era ancora più duro di oggi), attuando lo slogan “operai a scuola, studenti in officina – faremo l'Italia come la Cina”. Il mio sconcerto crebbe ancora, come pure l'indignazione, quando una certa estate andai a raccogliere la frutta nei campi, alla pari dei braccianti agricoli salariati, assieme ad un gruppetto di amici miei che erano “compagni”, erano i “migliori”. In quell'occasione vidi crollare i maoisti per la durezza dello sforzo, sforzo al quale non erano allenati, come non lo ero io. Io strinsi i denti, e vidi con stupore che i “compagni” si ritirarono prima di me, e lo fecero con assoluta disinvoltura..................................................................................
Il mio sconcerto crebbe ancora, quando seguii le lezioni universitarie di un noto cattedratico estremista, il quale non perdeva occasione per esortare i suoi allievi a preparare la rivoluzione. In un momento di autenticità, costui ammise, con assoluta naturalezza ed incredibile candore, che lui stesso aveva scelto nella vita una professione intellettuale, per fare un lavoro meno duro di un salariato; attribuì questa motivazione anche alla totalità dei suoi studenti. Questi ultimi, che formavano una classe scolastica-polveriera, sempre pronta a contestare tutto, si lasciarono descrivere così senza fiatare.......................................................................................................
Vi furono altri episodi sconcertanti di questo tipo, che non starò ad elencare, poi arrivò Finardi, con la sua confessione sincera, riportata nel post precedente.
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Re: Un vecchietto in rivolta
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Molti anni dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari che abbiamo rievocato, in pieno “riflusso”, raccolsi anche le confidenze di una ex “pantera” divenuta mia amante, una persona che da giovane era stata un elemento di punta nella contestazione (del '68). Questa bella signora mi ammise, con assoluto quanto indecente candore, che lei ed i suoi compagni in prima linea, in quegli anni “sognavano”, come aveva scritto e cantato Finardi, e non ci pensavano nemmeno a fare personalmente quei sacrifici che andavano decantando e prescrivendo all'umanità futura, nella utopica civiltà post-rivoluzionaria. Nemmeno si chiedevano, nemmeno si ponevano il problema, se sarebbero riusciti a sopportare il duro lavoro manuale, e di come avrebbero fatto ad incentrare le proprie vite su questo valore. Inoltre, essi erano tutti esempi viventi di “libero amore”, e non si domandavano mai come avrebbero potuto vivere in una società austera e repressiva sul versante sessuale, una società che avrebbe annientato la vita privata individuale e certe possibilità tanto amate, di esistenza libera o libertina. Anche le coppie più serie ed improntate a vero e purissimo amore, quando giravano la città mano nella mano o andavano alle manifestazioni nello stesso atteggiamento affettuoso e confidenziale, non si ponevano il problema che questo comportamento, questo loro modo preferito di vivere e/o sognare (un modo che era anche il mio), non era per niente maoista ed era assai poco castrista.
Dopo aver raccolto altre testimonianze di un certo sogno-delirio di massa, e dopo aver esercitato a lungo la mia capacità riflessiva, io sono giunto alle seguenti conclusioni, che per me sono certezze soggettive:
i compagni rivoluzionari erano di tre tipi:
1) quelli che vivevano in uno stato del tutto ipnotico e sonnambolico. Questi mai commisuravano il loro delirio con la realtà dei loro limiti e delle loro forze, oltre che con quella dei loro desideri e delle loro pulsioni individuali.
2) Quelli svegli e falsamente addormentati, più lucidi e più ipocriti. Questi (in minor numero) giocavano alla rivoluzione, sperando e confidando che non si sarebbe mai fatta.
3) I “duri e puri”, che furono pochissimi. Essi realmente andarono a lavorare come operai (questa scelta fu fatta anche da alcuni preti, che così facendo divennero “cattivi”), oppure finirono in prigione. Questi non giocarono, non sognarono, ma rovinarono le proprie vite. Per loro ho tuttora un grande rispetto.
(Continua)
Molti anni dopo il fallimento dei tentativi rivoluzionari che abbiamo rievocato, in pieno “riflusso”, raccolsi anche le confidenze di una ex “pantera” divenuta mia amante, una persona che da giovane era stata un elemento di punta nella contestazione (del '68). Questa bella signora mi ammise, con assoluto quanto indecente candore, che lei ed i suoi compagni in prima linea, in quegli anni “sognavano”, come aveva scritto e cantato Finardi, e non ci pensavano nemmeno a fare personalmente quei sacrifici che andavano decantando e prescrivendo all'umanità futura, nella utopica civiltà post-rivoluzionaria. Nemmeno si chiedevano, nemmeno si ponevano il problema, se sarebbero riusciti a sopportare il duro lavoro manuale, e di come avrebbero fatto ad incentrare le proprie vite su questo valore. Inoltre, essi erano tutti esempi viventi di “libero amore”, e non si domandavano mai come avrebbero potuto vivere in una società austera e repressiva sul versante sessuale, una società che avrebbe annientato la vita privata individuale e certe possibilità tanto amate, di esistenza libera o libertina. Anche le coppie più serie ed improntate a vero e purissimo amore, quando giravano la città mano nella mano o andavano alle manifestazioni nello stesso atteggiamento affettuoso e confidenziale, non si ponevano il problema che questo comportamento, questo loro modo preferito di vivere e/o sognare (un modo che era anche il mio), non era per niente maoista ed era assai poco castrista.
Dopo aver raccolto altre testimonianze di un certo sogno-delirio di massa, e dopo aver esercitato a lungo la mia capacità riflessiva, io sono giunto alle seguenti conclusioni, che per me sono certezze soggettive:
i compagni rivoluzionari erano di tre tipi:
1) quelli che vivevano in uno stato del tutto ipnotico e sonnambolico. Questi mai commisuravano il loro delirio con la realtà dei loro limiti e delle loro forze, oltre che con quella dei loro desideri e delle loro pulsioni individuali.
2) Quelli svegli e falsamente addormentati, più lucidi e più ipocriti. Questi (in minor numero) giocavano alla rivoluzione, sperando e confidando che non si sarebbe mai fatta.
3) I “duri e puri”, che furono pochissimi. Essi realmente andarono a lavorare come operai (questa scelta fu fatta anche da alcuni preti, che così facendo divennero “cattivi”), oppure finirono in prigione. Questi non giocarono, non sognarono, ma rovinarono le proprie vite. Per loro ho tuttora un grande rispetto.
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Ancora anni fa, ancora durante il “riflusso”, io ebbi un rapporto di grande amicizia con un reduce del '77 (lo stesso che ho già menzionato in questo topic, colui che aveva fatto una onesta autocritica riguardo all'intransigenza ideologica del movimento). Questo “ragazzo” era molto intelligente, sensibile e colto, ma si serviva di queste sue doti anche per distinguersi dalla massa, per fare lo snob, fiero com'era di appartenere alla ”intellighenzia”, alla minoranza di coloro che contano. Io mal sopportavo questo SUO snobismo, ed una volta sbottai: “Vittorio, tu che sei tanto orgoglioso di essere un intellettuale...sei allo stesso tempo tanto fiero di essere/essere stato un “compagno” rivoluzionario...MA PER TE DOVREBBE ESSERE UN DOVERE, FARTI UMILIARE DAGLI OPERAI!!!”
(Continua)
Ancora anni fa, ancora durante il “riflusso”, io ebbi un rapporto di grande amicizia con un reduce del '77 (lo stesso che ho già menzionato in questo topic, colui che aveva fatto una onesta autocritica riguardo all'intransigenza ideologica del movimento). Questo “ragazzo” era molto intelligente, sensibile e colto, ma si serviva di queste sue doti anche per distinguersi dalla massa, per fare lo snob, fiero com'era di appartenere alla ”intellighenzia”, alla minoranza di coloro che contano. Io mal sopportavo questo SUO snobismo, ed una volta sbottai: “Vittorio, tu che sei tanto orgoglioso di essere un intellettuale...sei allo stesso tempo tanto fiero di essere/essere stato un “compagno” rivoluzionario...MA PER TE DOVREBBE ESSERE UN DOVERE, FARTI UMILIARE DAGLI OPERAI!!!”
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
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...ed una volta sbottai: “Vittorio, tu che sei tanto orgoglioso di essere un intellettuale...sei allo stesso tempo tanto fiero di essere/essere stato un “compagno” rivoluzionario...MA PER TE DOVREBBE ESSERE UN DOVERE, FARTI UMILIARE DAGLI OPERAI!!!”.....
La risposta fu altrettanto fulminea, quanto fiera ed energica, fu uno scatto rabbioso: “QUESTO, IL TUO '68 (predicava queste cose, non il mio '77) !!!”. Erano presenti a questo scambio polemico altri amici non più giovanissimi, che avevano “fatto il '77”, i quali mi ricordarono che il movimento in questione aveva avuto due anime o due “vene”: vi erano stati di certo gli eredi del '68, i quali propugnavano ancora la necessità che il ceto degli intellettuali fosse rieducato dal proletariato di fabbrica, e patisse salutari mortificazioni da parte di quest'ultima classe sociale; propugnavano anche, per coloro che svolgevano “il lavoro intellettuale come professione”, un doveroso disagio psicologico permanente, la necessità morale di vivere a testa bassa. Ma vi furono nel '77 anche gli studenti che si scontrarono fisicamente con gli operai, tenendo un atteggiamento di aspra fierezza; questi si sentivano SUPERIORI ai lavoratori manuali proletari, ovvero in grado, in diritto ed in dovere di insegnare loro qualcosa, di correggerli politicamente (nel'68 questo sarebbe parso una bestemmia).
Durante la polemica fra amici che sto rievocando, mi venne alla mente di aver sentito dire che Umberto Eco, in uno studio da me mai letto, avrebbe tentato di ricostruire l'”ideologia vera” dei giovani del '77, al di là di quella professata in pubblico e in privato, che rimaneva indiscutibilmente il MARXISMO-LENINISMO. Il movimento del '77 sarebbe stato inconsapevolmente diviso fra il suo “essere ideale” o “dover essere”, che era di marca esclusiva marxista-leninista, ed il suo “essere reale”, ossia il suo vero orientamento di visione del mondo, quale si rivelava nelle scelte di valore e nei comportamenti concreti. Questa autentica, “inconsapevole ideologia” dei ragazzi del '77 sarebbe stata, secondo Umberto Eco, una produzione culturale molto raffinata (qualcosa di nuovo, un pensiero “aristocratico”, dico io più che mai a braccio), una formazione culturale per nulla coincidente con il marxismo-leninismo al quale si sovrapponeva come sovrastruttura non dichiarata. Non so se il movimento di cui trattiamo sia stato davvero portatore della contraddizione da me ricordata; in ogni caso, è stato un movimento esemplare per le contraddizioni: gli studenti che picchiano gli operai in nome di Marx e di Lenin... voler fare una rivoluzione di popolo senza il popolo...
Ma torniamo al filo conduttore: se anche fosse vero che “il '77” abbia avuto due anime o due vene alternative, questo non fu vero per “il '68”, che nel bene e nel male fu molto più coerente e monolitico. Ed è con il movimento studentesco del '68 che io dovetti confrontarmi, per ragioni anagrafiche. E quindi io, che ho molto orgoglio.....NON POTEVO ACCETTARE DI VIVERE UMILIATO DAGLI OPERAI, UNA PARTE DEI QUALI ERANO ALLORA DEI SOGGETTI BESTIALI. NON POTEVO VIVERE IN UNA CONDIZIONE DI DISAGIO PERMANENTE, NON POTEVO ACCETTARE DI VIVERE A TESTA BASSA. Ma su questo punto mi trovavo in sintonia totale con il mio amico “del '77”, il quale era molto onesto, ed ammise durante quella stessa discussione che qui ho rievocato, che lui, essendo orgoglioso quanto me, un certo prezzo (farsi umiliare dagli operai) non lo avrebbe mai pagato. Piuttosto, se necessario, avrebbe abbandonato il movimento.
La differenza fra me ed il mio amico: lui si è potuto permettere la non-coerenza, e con ciò una giovinezza molto più euforica, si è potuto permettere di essere “in”, di essere “come si deve”, di essere “dalla parte giusta” negli anni più belli.
(Continua)
...ed una volta sbottai: “Vittorio, tu che sei tanto orgoglioso di essere un intellettuale...sei allo stesso tempo tanto fiero di essere/essere stato un “compagno” rivoluzionario...MA PER TE DOVREBBE ESSERE UN DOVERE, FARTI UMILIARE DAGLI OPERAI!!!”.....
La risposta fu altrettanto fulminea, quanto fiera ed energica, fu uno scatto rabbioso: “QUESTO, IL TUO '68 (predicava queste cose, non il mio '77) !!!”. Erano presenti a questo scambio polemico altri amici non più giovanissimi, che avevano “fatto il '77”, i quali mi ricordarono che il movimento in questione aveva avuto due anime o due “vene”: vi erano stati di certo gli eredi del '68, i quali propugnavano ancora la necessità che il ceto degli intellettuali fosse rieducato dal proletariato di fabbrica, e patisse salutari mortificazioni da parte di quest'ultima classe sociale; propugnavano anche, per coloro che svolgevano “il lavoro intellettuale come professione”, un doveroso disagio psicologico permanente, la necessità morale di vivere a testa bassa. Ma vi furono nel '77 anche gli studenti che si scontrarono fisicamente con gli operai, tenendo un atteggiamento di aspra fierezza; questi si sentivano SUPERIORI ai lavoratori manuali proletari, ovvero in grado, in diritto ed in dovere di insegnare loro qualcosa, di correggerli politicamente (nel'68 questo sarebbe parso una bestemmia).
Durante la polemica fra amici che sto rievocando, mi venne alla mente di aver sentito dire che Umberto Eco, in uno studio da me mai letto, avrebbe tentato di ricostruire l'”ideologia vera” dei giovani del '77, al di là di quella professata in pubblico e in privato, che rimaneva indiscutibilmente il MARXISMO-LENINISMO. Il movimento del '77 sarebbe stato inconsapevolmente diviso fra il suo “essere ideale” o “dover essere”, che era di marca esclusiva marxista-leninista, ed il suo “essere reale”, ossia il suo vero orientamento di visione del mondo, quale si rivelava nelle scelte di valore e nei comportamenti concreti. Questa autentica, “inconsapevole ideologia” dei ragazzi del '77 sarebbe stata, secondo Umberto Eco, una produzione culturale molto raffinata (qualcosa di nuovo, un pensiero “aristocratico”, dico io più che mai a braccio), una formazione culturale per nulla coincidente con il marxismo-leninismo al quale si sovrapponeva come sovrastruttura non dichiarata. Non so se il movimento di cui trattiamo sia stato davvero portatore della contraddizione da me ricordata; in ogni caso, è stato un movimento esemplare per le contraddizioni: gli studenti che picchiano gli operai in nome di Marx e di Lenin... voler fare una rivoluzione di popolo senza il popolo...
Ma torniamo al filo conduttore: se anche fosse vero che “il '77” abbia avuto due anime o due vene alternative, questo non fu vero per “il '68”, che nel bene e nel male fu molto più coerente e monolitico. Ed è con il movimento studentesco del '68 che io dovetti confrontarmi, per ragioni anagrafiche. E quindi io, che ho molto orgoglio.....NON POTEVO ACCETTARE DI VIVERE UMILIATO DAGLI OPERAI, UNA PARTE DEI QUALI ERANO ALLORA DEI SOGGETTI BESTIALI. NON POTEVO VIVERE IN UNA CONDIZIONE DI DISAGIO PERMANENTE, NON POTEVO ACCETTARE DI VIVERE A TESTA BASSA. Ma su questo punto mi trovavo in sintonia totale con il mio amico “del '77”, il quale era molto onesto, ed ammise durante quella stessa discussione che qui ho rievocato, che lui, essendo orgoglioso quanto me, un certo prezzo (farsi umiliare dagli operai) non lo avrebbe mai pagato. Piuttosto, se necessario, avrebbe abbandonato il movimento.
La differenza fra me ed il mio amico: lui si è potuto permettere la non-coerenza, e con ciò una giovinezza molto più euforica, si è potuto permettere di essere “in”, di essere “come si deve”, di essere “dalla parte giusta” negli anni più belli.
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Negli anni della prima contestazione io non ero un giovane sereno, come in massima parte non lo erano i contestatori. Sia loro che io, avevamo un discreto carico di conflittualità interiore irrisolta, eravamo una gioventù nevrotica. Oggi trovo normale che a quell'epoca io abbia sentito troppo forte il fascino delle sirene liberali-liberiste, le quali certamente mi condizionavano spostandomi più a destra dei contestatori, e la seduzione irresistibile della “way of live” anglosassone, che è massimamente individualistica: la villetta privata personale, magari pure attrezzata di piscina, con la propria autorimessa e la propria automobilina fiammante, erano di certo nei miei sogni, confessati o meno. Distruggere questi sogni con la carica di “dinamite” della contestazione, mi faceva piangere il cuore. Rimanevo sconcertato nell'osservare i miei coetanei che desideravano la villetta privata quanto la desideravo io, ed allo stesso tempo si impegnavano con tutte le loro forze per preparare una rivoluzione che avrebbe impedito per sempre la realizzazione del sogno comune, di benessere individuale ed individualistico. Ma possiamo far valere qui la stessa critica formulata più sopra, per altre contraddizioni dei giovani di ieri. Un particolare ancora mi preme focalizzare: a livello di scelta ideologica personale, è del tutto normale che un soggetto nevrotico, ovvero portatore di conflitti irrisolti, sia spinto dal suo stesso disagio interiore verso posizioni individualistiche, non collettivistiche, non socialiste.
Chi non ha ancora conquistato del tutto la propria personalità, teme di non riuscire mai nell'impresa, teme di perdere la propria individualità (che è debole perché divisa). Essendo del tutto proteso a difendere la propria soggettività individuale che sente minacciata, e a conquistarla del tutto, l'individuo nevrotizzato si identificherà più facilmente con le ideologie che esaltano la personalità individuale (che è il suo traguardo, il suo obiettivo vitale), piuttosto che con ideologie che ne predicano il superamento, nella dimensione del collettivo. Il saggio discorso di Bertrand Russel, secondo il quale la personalità deve essere intesa come mezzo, per fondersi armoniosamente con gli altri in organismi collettivi, e non come fine, da conservare e da difendere ad ogni costo...questo discorso non può essere inteso da un ragazzo irrisolto. Ed infatti io ho apprezzato quell'insegnamento, e sono potuto diventare socialista, da grande, dopo aver conquistato in via definitiva la mia pace interiore. Perché ieri si atteggiassero a socialisti dei ragazzi che erano irrisolti (e quindi “naturalmente liberali”) quanto me, diventa una domanda retorica, alla luce delle considerazioni fatte in precedenza, riguardanti altre contraddizioni.
(Continua)
Negli anni della prima contestazione io non ero un giovane sereno, come in massima parte non lo erano i contestatori. Sia loro che io, avevamo un discreto carico di conflittualità interiore irrisolta, eravamo una gioventù nevrotica. Oggi trovo normale che a quell'epoca io abbia sentito troppo forte il fascino delle sirene liberali-liberiste, le quali certamente mi condizionavano spostandomi più a destra dei contestatori, e la seduzione irresistibile della “way of live” anglosassone, che è massimamente individualistica: la villetta privata personale, magari pure attrezzata di piscina, con la propria autorimessa e la propria automobilina fiammante, erano di certo nei miei sogni, confessati o meno. Distruggere questi sogni con la carica di “dinamite” della contestazione, mi faceva piangere il cuore. Rimanevo sconcertato nell'osservare i miei coetanei che desideravano la villetta privata quanto la desideravo io, ed allo stesso tempo si impegnavano con tutte le loro forze per preparare una rivoluzione che avrebbe impedito per sempre la realizzazione del sogno comune, di benessere individuale ed individualistico. Ma possiamo far valere qui la stessa critica formulata più sopra, per altre contraddizioni dei giovani di ieri. Un particolare ancora mi preme focalizzare: a livello di scelta ideologica personale, è del tutto normale che un soggetto nevrotico, ovvero portatore di conflitti irrisolti, sia spinto dal suo stesso disagio interiore verso posizioni individualistiche, non collettivistiche, non socialiste.
Chi non ha ancora conquistato del tutto la propria personalità, teme di non riuscire mai nell'impresa, teme di perdere la propria individualità (che è debole perché divisa). Essendo del tutto proteso a difendere la propria soggettività individuale che sente minacciata, e a conquistarla del tutto, l'individuo nevrotizzato si identificherà più facilmente con le ideologie che esaltano la personalità individuale (che è il suo traguardo, il suo obiettivo vitale), piuttosto che con ideologie che ne predicano il superamento, nella dimensione del collettivo. Il saggio discorso di Bertrand Russel, secondo il quale la personalità deve essere intesa come mezzo, per fondersi armoniosamente con gli altri in organismi collettivi, e non come fine, da conservare e da difendere ad ogni costo...questo discorso non può essere inteso da un ragazzo irrisolto. Ed infatti io ho apprezzato quell'insegnamento, e sono potuto diventare socialista, da grande, dopo aver conquistato in via definitiva la mia pace interiore. Perché ieri si atteggiassero a socialisti dei ragazzi che erano irrisolti (e quindi “naturalmente liberali”) quanto me, diventa una domanda retorica, alla luce delle considerazioni fatte in precedenza, riguardanti altre contraddizioni.
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italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
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Ricapitoliamo: nel preambolo di questo topic si sosteneva la possibilità di essere rivoluzionari attualmente, pur senza esserlo stati in passato, e senza porsi per questo in contraddizione. Perché ieri no ed oggi sì? Perché “ieri no” (da parte mia), lo si è sviscerato fin qui abbastanza. Se i connotati del tentativo rivoluzionario attuale fossero gli stessi di ieri, scatterebbe di nuovo il mio “NO”. Ma tutto quello che più conta, è cambiato da allora, da quel passato sbagliato e violento: è venuto meno il comunismo marxista come ideale e come visione del mondo, trascinando nella sua caduta le mie difficoltà insormontabili.
Quanto agli altri motivi, quelli “meno nobili”:
1) nessuno può pretendere che un uomo che ha 62 anni oggi, e ne avrà almeno 64 quando si farà la rivoluzione, si sottoponga ad un lavoro manuale troppo duro. La farò franca per limiti di età. Anche se la nuova civiltà auspicata, la conviviale civiltà della “DECRESCITA”, sarà verosimilmente una civiltà contadina, nella quale quasi tutti dovranno sporcarsi almeno un poco le mani. La farò franca per limiti di età. Mi viene alla mente un pensiero un po' agghiacciante, che io formulavo (ma nella mia interiorità soltanto, per buongusto) negli anni della contestazione, quando vedevo dei poveri compagni fisicamente handicappati, non vedenti o mutilati o paralitici o spastici, aderire con slancio e con tutto il loro impegno alla causa rivoluzionaria. “Già, ma per te è più facile”, io pensavo, “tu non hai niente da perdere se ci sarà la rivoluzione, perché un domani sarai messo per forza a fare l'insegnante o qualcosa di simile. Non puoi rischiare di fare l'operaio se non ci vedi, o il bracciante agricolo se non hai le mani”.
2) La perdita del libero amore? Non è più una conseguenza probabile, né tanto meno necessaria. Ed in ogni caso, questa possibilità io l'ho tenuta in vita già molto a lungo, e presto dovrò perderla comunque, per limiti naturali.
3) La perdita del benessere individuale? Quel benessere era sopratutto un mito, un sogno, e come tale è già stato perduto. Per quanto riguarda le mie condizioni attuali di “vita comoda” o privilegiata, sono destinato a perderle comunque, per l'evoluzione dei tempi. Preferisco essere io a scegliere “come” e “quando”, è più dignitoso.
4) La spersonalizzazione degli individui in una dimensione sociale forzatamente collettivistica? Oggi io sono molto più saldo e più forte di quando ero giovane; anche in virtù delle tempeste affrontate e patite ieri, niente mi fa più paura...
(Continua)
Ricapitoliamo: nel preambolo di questo topic si sosteneva la possibilità di essere rivoluzionari attualmente, pur senza esserlo stati in passato, e senza porsi per questo in contraddizione. Perché ieri no ed oggi sì? Perché “ieri no” (da parte mia), lo si è sviscerato fin qui abbastanza. Se i connotati del tentativo rivoluzionario attuale fossero gli stessi di ieri, scatterebbe di nuovo il mio “NO”. Ma tutto quello che più conta, è cambiato da allora, da quel passato sbagliato e violento: è venuto meno il comunismo marxista come ideale e come visione del mondo, trascinando nella sua caduta le mie difficoltà insormontabili.
Quanto agli altri motivi, quelli “meno nobili”:
1) nessuno può pretendere che un uomo che ha 62 anni oggi, e ne avrà almeno 64 quando si farà la rivoluzione, si sottoponga ad un lavoro manuale troppo duro. La farò franca per limiti di età. Anche se la nuova civiltà auspicata, la conviviale civiltà della “DECRESCITA”, sarà verosimilmente una civiltà contadina, nella quale quasi tutti dovranno sporcarsi almeno un poco le mani. La farò franca per limiti di età. Mi viene alla mente un pensiero un po' agghiacciante, che io formulavo (ma nella mia interiorità soltanto, per buongusto) negli anni della contestazione, quando vedevo dei poveri compagni fisicamente handicappati, non vedenti o mutilati o paralitici o spastici, aderire con slancio e con tutto il loro impegno alla causa rivoluzionaria. “Già, ma per te è più facile”, io pensavo, “tu non hai niente da perdere se ci sarà la rivoluzione, perché un domani sarai messo per forza a fare l'insegnante o qualcosa di simile. Non puoi rischiare di fare l'operaio se non ci vedi, o il bracciante agricolo se non hai le mani”.
2) La perdita del libero amore? Non è più una conseguenza probabile, né tanto meno necessaria. Ed in ogni caso, questa possibilità io l'ho tenuta in vita già molto a lungo, e presto dovrò perderla comunque, per limiti naturali.
3) La perdita del benessere individuale? Quel benessere era sopratutto un mito, un sogno, e come tale è già stato perduto. Per quanto riguarda le mie condizioni attuali di “vita comoda” o privilegiata, sono destinato a perderle comunque, per l'evoluzione dei tempi. Preferisco essere io a scegliere “come” e “quando”, è più dignitoso.
4) La spersonalizzazione degli individui in una dimensione sociale forzatamente collettivistica? Oggi io sono molto più saldo e più forte di quando ero giovane; anche in virtù delle tempeste affrontate e patite ieri, niente mi fa più paura...
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Dicevo più sopra che oggi io non temo più la spersonalizzazione individuale, perché sono, per così dire, vaccinato e “rotto a tutto”. Ma ho rimandato di esporre la motivazione più fondamentale, che cancella quel mio antico timore: la spersonalizzazione degli individui, su scala sociale è già avvenuta del tutto, non vi è più niente da perdere.
Ricordo come negli anni della prima contestazione, gli spiriti critici più illuminati (che di certo non mancavano fra i contestatori), mettessero in guardia noi ragazzi più ingenui, che sentivamo la fascinazione delle sirene liberiste e liberali. ““Il sistema” ti fa credere di essere un individuo autosufficiente, e di avere chissà quale personalità, una personalità che il comunismo ti farebbe perdere. In realtà non sei molto sviluppato come individuo, tu sei una macchinetta che il sistema costruisce a sua immagine, e poi usa”. Questa critica era molto fondata ed io l'ho capito troppo tardi: debbo ammettere anche i round da me perduti, in questo mio confronto a distanza con i “compagni”. Se il dato di psicologia sociale che ho appena richiamato, era vero ieri, molto di più lo è oggi. Oggi, dopo che sono aumentati a dismisura i canali televisivi, e la dipendenza delle masse dai media. Ed è stata quasi ridotta a zero, a livello di fruizione popolare, ogni assimilazione (ed elaborazione!) culturale alternativa. Forse non a caso Berlusconi, quando lanciò “Forza Italia”, insistette tanto sul valore e sul primato dell'individuo, nel presentare il suo programma agli italiani. Usò la stessa trappola di ieri. Ma se la trappola di ieri e di oggi è la stessa, i topi che oggi ci cadono sono molto più narcotizzati. La parabola del capitalismo infatti si è compiuta: in nome dell'individuo, l'individualità è stata distrutta. Ieri le persone avevano almeno una certa impronta o timbro personale che le diversificava le une dalle altre, quasi ogni persona ti colpiva per una sua peculiarità. Oggi gli individui sono pressoché tutti uguali, tutti fatti come il potere mediatico li ha voluti. SUL VERSANTE CRITICO DELLA PERSONALITA'/SPERSONALIZZAZIONE L'ALIENAZIONE HA VINTO, LA PERSONALITA' E' DECEDUTA. NON C'E' PIU' NULLA DA PERDERE.
….....................................................................................................................................
Dette queste cose, si è conclusa per così dire la “pars destruens” di questo soggettivissimo elaborato. Ho spiegato perché ieri il sottoscritto non poteva essere rivoluzionario. Ma non ho ancora chiarito perché mai, se IERI NO, OGGI (INVECE) SI'. Il fatto che siano venute meno le remore, i freni, e le ragioni ostative di ieri, non è una ragione sufficiente per determinare nell'oggi una scelta che pare tanto azzardata, e tanto innaturale in un uomo della mia età. Riprendendo un tema accennato nel preambolo di questo topic, rimane da far emergere il “quid” che motiva, che spinge al grande balzo, che determina persuasione, circa la bontà della causa rivoluzionaria. Infatti, il non avere più ostacoli per fare un certo salto, non significa ancora AVERE VALIDI MOTIVI PER SALTARE.
(Continua)
Dicevo più sopra che oggi io non temo più la spersonalizzazione individuale, perché sono, per così dire, vaccinato e “rotto a tutto”. Ma ho rimandato di esporre la motivazione più fondamentale, che cancella quel mio antico timore: la spersonalizzazione degli individui, su scala sociale è già avvenuta del tutto, non vi è più niente da perdere.
Ricordo come negli anni della prima contestazione, gli spiriti critici più illuminati (che di certo non mancavano fra i contestatori), mettessero in guardia noi ragazzi più ingenui, che sentivamo la fascinazione delle sirene liberiste e liberali. ““Il sistema” ti fa credere di essere un individuo autosufficiente, e di avere chissà quale personalità, una personalità che il comunismo ti farebbe perdere. In realtà non sei molto sviluppato come individuo, tu sei una macchinetta che il sistema costruisce a sua immagine, e poi usa”. Questa critica era molto fondata ed io l'ho capito troppo tardi: debbo ammettere anche i round da me perduti, in questo mio confronto a distanza con i “compagni”. Se il dato di psicologia sociale che ho appena richiamato, era vero ieri, molto di più lo è oggi. Oggi, dopo che sono aumentati a dismisura i canali televisivi, e la dipendenza delle masse dai media. Ed è stata quasi ridotta a zero, a livello di fruizione popolare, ogni assimilazione (ed elaborazione!) culturale alternativa. Forse non a caso Berlusconi, quando lanciò “Forza Italia”, insistette tanto sul valore e sul primato dell'individuo, nel presentare il suo programma agli italiani. Usò la stessa trappola di ieri. Ma se la trappola di ieri e di oggi è la stessa, i topi che oggi ci cadono sono molto più narcotizzati. La parabola del capitalismo infatti si è compiuta: in nome dell'individuo, l'individualità è stata distrutta. Ieri le persone avevano almeno una certa impronta o timbro personale che le diversificava le une dalle altre, quasi ogni persona ti colpiva per una sua peculiarità. Oggi gli individui sono pressoché tutti uguali, tutti fatti come il potere mediatico li ha voluti. SUL VERSANTE CRITICO DELLA PERSONALITA'/SPERSONALIZZAZIONE L'ALIENAZIONE HA VINTO, LA PERSONALITA' E' DECEDUTA. NON C'E' PIU' NULLA DA PERDERE.
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Dette queste cose, si è conclusa per così dire la “pars destruens” di questo soggettivissimo elaborato. Ho spiegato perché ieri il sottoscritto non poteva essere rivoluzionario. Ma non ho ancora chiarito perché mai, se IERI NO, OGGI (INVECE) SI'. Il fatto che siano venute meno le remore, i freni, e le ragioni ostative di ieri, non è una ragione sufficiente per determinare nell'oggi una scelta che pare tanto azzardata, e tanto innaturale in un uomo della mia età. Riprendendo un tema accennato nel preambolo di questo topic, rimane da far emergere il “quid” che motiva, che spinge al grande balzo, che determina persuasione, circa la bontà della causa rivoluzionaria. Infatti, il non avere più ostacoli per fare un certo salto, non significa ancora AVERE VALIDI MOTIVI PER SALTARE.
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Vi sono stati due miei colloqui recenti con amici, dei quali è opportuno riferire in questo excursus. Questi dialoghi sono sintomatici infatti delle difficoltà che io incontro oggi, se oso il grande balzo rivoluzionario, se oso quel salto che non volli spiccare da giovane. In entrambi i casi mi trovavo a parlare con persone a me molto vicine, entrambi “reduci politici”: il primo dalle battaglie del '68, il secondo da quelle del '77.
Il primo, ex sessantottino, mi disse più o meno “Davide, vedo che tu oggi sei su posizioni “estremiste”, mentre io lo ero ieri...oggi io sono molto più esitante di te...”. “Amilcare, gli risposi, mi sembra di capire che tu oggi, piuttosto che volere, e contribuire a realizzare, grandi riforme totalizzanti, vorresti salvare lo “status quo”, preferiresti SALVARE L'EURO”. “Sì, io preferirei che si salvasse l'euro”, ammise con ammirevole franchezza il mio amico di gioventù,”anche perché noi due, che siamo coetanei, non abbiamo più molti anni da vivere, ed un eventuale “default” potrebbe richiedere un lasso temporale di 20 o 30 anni, prima che l'Italia si riprendesse e ritornasse in condizioni materiali di relativo benessere, o comunque di vita materialmente vivibile. E noi non abbiamo tanto tempo davanti a noi per goderci il premio di durissimi sacrifici, rischiamo di mandare soltanto a “schifìo” le nostre vite, senza alcun beneficio per noi. Rischiamo di concludere da cani la nostra esistenza”.
Lo abbracciai. Perché condivido in tutto i suoi timori, e condivido il desiderio di concludere la mia parabola esistenziale limitando quanto più possibile le sofferenze, e salvando quanto più possibile il soddisfacimento comodo dei miei bisogni, che pure sono modesti.
Il secondo amico mi disse più o meno: “Io sono rivoluzionario da sempre nell'animo, ed a livello emotivo Monti mi è a dir poco “antipatico”. Ma lo ringrazio di avermi salvato: perché io oggi faccio il dentista, ed in caso di “default” la popolazione si ritrova così povera che dal dentista non ci va più; se ha mal di denti va in ospedale a farsi togliere quello che duole. Io, se l'Italia non pagasse il debito e fallisse, resterei senza lavoro e senza possibilità di trovarne un altro: sarei ridotto all'indigenza. Tu Davide, sei un egoista, se propugni una soluzione che salva te, perché riceverai la tua pensione dalle casse dello stato, e rischieresti al massimo di vedertela decurtare di un terzo, ma una parte di retribuzione la manterresti comunque, per ragioni etiche, sociali, politiche. Tu perderesti una parte del tuo reddito, io lo perderei tutto. Tu dovresti tirare la cinghia, e so che sei disposto a farlo per motivazioni ideali, mentre io farei letteralmente la fame”.
(Continua)
Vi sono stati due miei colloqui recenti con amici, dei quali è opportuno riferire in questo excursus. Questi dialoghi sono sintomatici infatti delle difficoltà che io incontro oggi, se oso il grande balzo rivoluzionario, se oso quel salto che non volli spiccare da giovane. In entrambi i casi mi trovavo a parlare con persone a me molto vicine, entrambi “reduci politici”: il primo dalle battaglie del '68, il secondo da quelle del '77.
Il primo, ex sessantottino, mi disse più o meno “Davide, vedo che tu oggi sei su posizioni “estremiste”, mentre io lo ero ieri...oggi io sono molto più esitante di te...”. “Amilcare, gli risposi, mi sembra di capire che tu oggi, piuttosto che volere, e contribuire a realizzare, grandi riforme totalizzanti, vorresti salvare lo “status quo”, preferiresti SALVARE L'EURO”. “Sì, io preferirei che si salvasse l'euro”, ammise con ammirevole franchezza il mio amico di gioventù,”anche perché noi due, che siamo coetanei, non abbiamo più molti anni da vivere, ed un eventuale “default” potrebbe richiedere un lasso temporale di 20 o 30 anni, prima che l'Italia si riprendesse e ritornasse in condizioni materiali di relativo benessere, o comunque di vita materialmente vivibile. E noi non abbiamo tanto tempo davanti a noi per goderci il premio di durissimi sacrifici, rischiamo di mandare soltanto a “schifìo” le nostre vite, senza alcun beneficio per noi. Rischiamo di concludere da cani la nostra esistenza”.
Lo abbracciai. Perché condivido in tutto i suoi timori, e condivido il desiderio di concludere la mia parabola esistenziale limitando quanto più possibile le sofferenze, e salvando quanto più possibile il soddisfacimento comodo dei miei bisogni, che pure sono modesti.
Il secondo amico mi disse più o meno: “Io sono rivoluzionario da sempre nell'animo, ed a livello emotivo Monti mi è a dir poco “antipatico”. Ma lo ringrazio di avermi salvato: perché io oggi faccio il dentista, ed in caso di “default” la popolazione si ritrova così povera che dal dentista non ci va più; se ha mal di denti va in ospedale a farsi togliere quello che duole. Io, se l'Italia non pagasse il debito e fallisse, resterei senza lavoro e senza possibilità di trovarne un altro: sarei ridotto all'indigenza. Tu Davide, sei un egoista, se propugni una soluzione che salva te, perché riceverai la tua pensione dalle casse dello stato, e rischieresti al massimo di vedertela decurtare di un terzo, ma una parte di retribuzione la manterresti comunque, per ragioni etiche, sociali, politiche. Tu perderesti una parte del tuo reddito, io lo perderei tutto. Tu dovresti tirare la cinghia, e so che sei disposto a farlo per motivazioni ideali, mentre io farei letteralmente la fame”.
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Il pronunciamento del mio amico, con il quale si conclude il post precedente, è del tutto reversibile: molti mesi fa apprendemmo dai media che in uno stato che era fallito, o era stato sull'orlo della bancarotta (per un debito pubblico troppo alto da pagare), i pubblici dipendenti ed i pensionati, al momento di riscuotere le loro retribuzioni, non avevano percepito un soldo, perché nelle casse statali soldi più non ce n'erano. Per inciso, io so benissimo che non è una bella figura fare una citazione tanto vaga; ma se questo è un forum, e se vi è qualche lettore più in forma di me, è pregato di intervenire per sostanziare il mio discorso con un riferimento concreto, oppure per confutarmi. Ma se anche il mio amico avesse ragione, due sono i limiti della sua critica:
1) se mi riducessero di un terzo la futura pensione, già di per sé magra, e nel contempo i prezzi aumentassero, io non potrei più vivere;
2) quand'anche andassero in rovina soltanto il mio amico ed i professionisti onesti e virtuosi come lui, questo basterebbe a togliermi il sonno e l'appetito.
Ora, questi rischi che stiamo considerando, sono solo delle eventualità, forse molto probabili in caso di default italiano, ma non sono certezze. Un uomo serio, equilibrato e razionale come Giorgio Cremaschi non ha nemmeno di questi timori, ed altre persone valide e competenti la pensano allo stesso modo. Comunque, ogni legge morale ha questo punto fermo: tra un male eventuale ed uno certo, si deve scegliere il primo, soprattutto se si tratta di mali della stessa gravità.
Mario Monti ed i suoi fans ci ricordano di frequente che in Italia oggi vi sono soltanto due alternative in gioco: o il rigore stile-Monti o il default.
Il tanto temuto fallimento POTREBBE comportare quei rischi di miseria evocati più sopra; il rigore-Monti produce CERTAMENTE LA MISERIA DI ALCUNE CATEGORIE: SI PENSI AGLI ESODATI, AI PRECARI ESCLUSI DAL MONDO DELLA SCUOLA, AI PUBBLICI DIPENDENTI CHE PRESTO SARANNO DEFINITI IN ESUBERO.
(Continua)
Il pronunciamento del mio amico, con il quale si conclude il post precedente, è del tutto reversibile: molti mesi fa apprendemmo dai media che in uno stato che era fallito, o era stato sull'orlo della bancarotta (per un debito pubblico troppo alto da pagare), i pubblici dipendenti ed i pensionati, al momento di riscuotere le loro retribuzioni, non avevano percepito un soldo, perché nelle casse statali soldi più non ce n'erano. Per inciso, io so benissimo che non è una bella figura fare una citazione tanto vaga; ma se questo è un forum, e se vi è qualche lettore più in forma di me, è pregato di intervenire per sostanziare il mio discorso con un riferimento concreto, oppure per confutarmi. Ma se anche il mio amico avesse ragione, due sono i limiti della sua critica:
1) se mi riducessero di un terzo la futura pensione, già di per sé magra, e nel contempo i prezzi aumentassero, io non potrei più vivere;
2) quand'anche andassero in rovina soltanto il mio amico ed i professionisti onesti e virtuosi come lui, questo basterebbe a togliermi il sonno e l'appetito.
Ora, questi rischi che stiamo considerando, sono solo delle eventualità, forse molto probabili in caso di default italiano, ma non sono certezze. Un uomo serio, equilibrato e razionale come Giorgio Cremaschi non ha nemmeno di questi timori, ed altre persone valide e competenti la pensano allo stesso modo. Comunque, ogni legge morale ha questo punto fermo: tra un male eventuale ed uno certo, si deve scegliere il primo, soprattutto se si tratta di mali della stessa gravità.
Mario Monti ed i suoi fans ci ricordano di frequente che in Italia oggi vi sono soltanto due alternative in gioco: o il rigore stile-Monti o il default.
Il tanto temuto fallimento POTREBBE comportare quei rischi di miseria evocati più sopra; il rigore-Monti produce CERTAMENTE LA MISERIA DI ALCUNE CATEGORIE: SI PENSI AGLI ESODATI, AI PRECARI ESCLUSI DAL MONDO DELLA SCUOLA, AI PUBBLICI DIPENDENTI CHE PRESTO SARANNO DEFINITI IN ESUBERO.
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Traggo da “Wikipedia”:
""Prima vennero…" è una poesia attribuita al pastore Martin Niemöller sull'inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all'ascesa al potere dei nazisti e delle purghe dei loro obiettivi scelti, gruppo dopo gruppo. La poesia è ben conosciuta e frequentemente citata, ed è un modello popolare per descrivere i pericoli dell'apatia politica,
(“... la poesia è stata spesso erroneamente attribuita a Bertolt Brecht sin dagli anni settanta”)..."
Questo il testo, meraviglioso:
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
Che ci azzecca questa citazione con il nostro tema? So bene che è sempre pericoloso costruire o proporre una qualsivoglia analogia con il nazismo, perché il livello di efferatezza di quella esperienza collettiva non ha uguali nella storia recente, ed accostarvi delle realtà italiane attuali significa apparire degli esaltati e/o individui di pessimo gusto, oltre a fare perdere a priori credibilità al concetto che si tenta di trasmettere. Io so bene che Monti non è Hitler, e non è nemmeno la sua “malacopia”. Tuttavia ho molta stima dei miei lettori abituali (escluso qualcuno), e faccio appello alla loro capacità logica. Ragazzi, mettete da parte l'emotività, che per fortuna sempre scatta quando si allude al nazismo, e provate a seguire il filo che vi propongo: per rinvenire un qualche nesso analogico fra le nefandezze di Hitler e quelle molto più lievi di Mario Monti e dei suoi ministri, si tratta di invertire i termini: nel nostro caso attuale vi sono categorie di persone che non vengono “prelevate e portate dentro” bensì “buttate fuori” dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Le vittime di ieri in molti casi erano condannate a morire, quelle di oggi in diversi casi finiscono o finiranno per morire, per suicidio o per indigenza. Le vittime di ieri conoscevano l'angoscia e l'abbruttimento in dosi massime, le vittime di oggi e di domani li conoscono in dosi non lievi (nessuno arriva a suicidarsi, come in diversi casi è già avvenuto, se la sua angoscia è leggera e controllabile). Come ieri gli intellettuali ed i benpensanti non si commuovevano per la tragedia degli altri, finché non toccò a loro essere “presi”, così oggi i fans di Mario Monti sacrificano quasi volentieri ALTRE categorie di persone sull'altare del risanamento, quel risanamento economico che dovrebbe riportare la CRESCITA e dunque il benessere a tutti. Se non che il rigore-Monti ha avuto come primo risultato, di far raddoppiare il debito pubblico, cioè quella voragine che sostiene e giustifica lo stesso rigore e le terapie nelle quali si attua. Non è stato sufficiente dunque l'effetto terapeutico prodotto dall'aver buttato sul lastrico una parte di esodati, molti lavoratori precari e, prossimamente, una parte di pubblici dipendenti definiti in esubero. Sono state previste dagli esperti non poche manovre future come quella attuale, che ha prodotto tanti disperati, sono previste dunque altre categorie di disperati, che non saranno “presi”, ma “buttati fuori”. Prima o poi, verrà anche il nostro turno.
(continua)
Traggo da “Wikipedia”:
""Prima vennero…" è una poesia attribuita al pastore Martin Niemöller sull'inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all'ascesa al potere dei nazisti e delle purghe dei loro obiettivi scelti, gruppo dopo gruppo. La poesia è ben conosciuta e frequentemente citata, ed è un modello popolare per descrivere i pericoli dell'apatia politica,
(“... la poesia è stata spesso erroneamente attribuita a Bertolt Brecht sin dagli anni settanta”)..."
Questo il testo, meraviglioso:
“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare”.
Che ci azzecca questa citazione con il nostro tema? So bene che è sempre pericoloso costruire o proporre una qualsivoglia analogia con il nazismo, perché il livello di efferatezza di quella esperienza collettiva non ha uguali nella storia recente, ed accostarvi delle realtà italiane attuali significa apparire degli esaltati e/o individui di pessimo gusto, oltre a fare perdere a priori credibilità al concetto che si tenta di trasmettere. Io so bene che Monti non è Hitler, e non è nemmeno la sua “malacopia”. Tuttavia ho molta stima dei miei lettori abituali (escluso qualcuno), e faccio appello alla loro capacità logica. Ragazzi, mettete da parte l'emotività, che per fortuna sempre scatta quando si allude al nazismo, e provate a seguire il filo che vi propongo: per rinvenire un qualche nesso analogico fra le nefandezze di Hitler e quelle molto più lievi di Mario Monti e dei suoi ministri, si tratta di invertire i termini: nel nostro caso attuale vi sono categorie di persone che non vengono “prelevate e portate dentro” bensì “buttate fuori” dal sistema economico e dal mondo del lavoro. Le vittime di ieri in molti casi erano condannate a morire, quelle di oggi in diversi casi finiscono o finiranno per morire, per suicidio o per indigenza. Le vittime di ieri conoscevano l'angoscia e l'abbruttimento in dosi massime, le vittime di oggi e di domani li conoscono in dosi non lievi (nessuno arriva a suicidarsi, come in diversi casi è già avvenuto, se la sua angoscia è leggera e controllabile). Come ieri gli intellettuali ed i benpensanti non si commuovevano per la tragedia degli altri, finché non toccò a loro essere “presi”, così oggi i fans di Mario Monti sacrificano quasi volentieri ALTRE categorie di persone sull'altare del risanamento, quel risanamento economico che dovrebbe riportare la CRESCITA e dunque il benessere a tutti. Se non che il rigore-Monti ha avuto come primo risultato, di far raddoppiare il debito pubblico, cioè quella voragine che sostiene e giustifica lo stesso rigore e le terapie nelle quali si attua. Non è stato sufficiente dunque l'effetto terapeutico prodotto dall'aver buttato sul lastrico una parte di esodati, molti lavoratori precari e, prossimamente, una parte di pubblici dipendenti definiti in esubero. Sono state previste dagli esperti non poche manovre future come quella attuale, che ha prodotto tanti disperati, sono previste dunque altre categorie di disperati, che non saranno “presi”, ma “buttati fuori”. Prima o poi, verrà anche il nostro turno.
(continua)
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Il presente topic viene proposto in una sezione del forum dedicata, poco o tanto, anche a spunti di filosofia. Permettetemi dunque di citare le “coincidenze sincroniche junghiane”. Una di queste sorprendenti combinazioni si è verificata nella mia vita quando ho pubblicato la puntata precedente di questa lunga conversazione. Poche ore dopo infatti, una bellissima puntata televisiva di REPORT ha trattato lo stesso tema, usando il mio stesso argomento:
http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-6ae26d04-ec9f-46db-ab0d-e5fdd11f1464.html
Un giornalista ammirevole, dell'encomiabile staff di Milena Gabanelli, incalza il ministro Fornero sul fatto che la sua riforma mieta delle vittime INEVITABILI (mantenendo la stessa riforma) fra gli “esodati”:
“buttiamo questi qua nel baratro e salviamo l'Italia...”, “qualche vittima la dobbiamo fare..è nel conto...”. Elsa Fornero è messa nell'angolo da questi attacchi, e si arrampica sugli specchi per venirne fuori. E' evidente la verità delle accuse. E' evidente quindi che il premier Monti, il cattolico Monti, presiede un governo immorale, secondo l'ottica del cattolicesimo. E' immorale, inaccettabile infatti secondo quest'ispirazione, salvare il benessere di molti sulla rovina di pochi. Piuttosto, si deve correre il rischio di andare a fondo (ovvero nel tanto temuto “default”) tutti assieme, e la Provvidenza ci aiuterà. Nella peggiore delle ipotesi futuribili, si socializzerà la povertà, come si faceva nei deprecati regimi socialisti sovietici e filo-sovietici, prima della caduta del muro di Berlino.
Ma Monti, come cattolico è un ragazzo alquanto indisciplinato. Ignora e/o trasgredisce anche uno degli insegnamenti più alti di Giovanni Paolo II:
“Mai le nuove realtà che investono con forza il processo produttivo, quali la globalizzazione della finanza, dei commerci e del lavoro devono violare la dignità e la centralità della persona umana, né la libertà e la democrazia dei popoli"”.
http://www.repubblica.it/online/cronaca/primomaggio/messa/messa.html
Sulla dignità e centralità della persona umana, il trattamento riservato agli esodati parla da sé.
Sulla libertà e democrazia dei popoli, parlano da sé certe dichiarazioni sulla cessione di quote di sovranità nazionale, dichiarazioni che furono riportate anche in questo forum; sulla democrazia in particolare parla da sé la sudditanza al mitico SPREAD, sudditanza che ha prodotto la riforma Fornero e sta producendo il progressivo smantellamento dello stato sociale.
(Continua)
Il presente topic viene proposto in una sezione del forum dedicata, poco o tanto, anche a spunti di filosofia. Permettetemi dunque di citare le “coincidenze sincroniche junghiane”. Una di queste sorprendenti combinazioni si è verificata nella mia vita quando ho pubblicato la puntata precedente di questa lunga conversazione. Poche ore dopo infatti, una bellissima puntata televisiva di REPORT ha trattato lo stesso tema, usando il mio stesso argomento:
http://www.report.rai.it/dl/Report/puntata/ContentItem-6ae26d04-ec9f-46db-ab0d-e5fdd11f1464.html
Un giornalista ammirevole, dell'encomiabile staff di Milena Gabanelli, incalza il ministro Fornero sul fatto che la sua riforma mieta delle vittime INEVITABILI (mantenendo la stessa riforma) fra gli “esodati”:
“buttiamo questi qua nel baratro e salviamo l'Italia...”, “qualche vittima la dobbiamo fare..è nel conto...”. Elsa Fornero è messa nell'angolo da questi attacchi, e si arrampica sugli specchi per venirne fuori. E' evidente la verità delle accuse. E' evidente quindi che il premier Monti, il cattolico Monti, presiede un governo immorale, secondo l'ottica del cattolicesimo. E' immorale, inaccettabile infatti secondo quest'ispirazione, salvare il benessere di molti sulla rovina di pochi. Piuttosto, si deve correre il rischio di andare a fondo (ovvero nel tanto temuto “default”) tutti assieme, e la Provvidenza ci aiuterà. Nella peggiore delle ipotesi futuribili, si socializzerà la povertà, come si faceva nei deprecati regimi socialisti sovietici e filo-sovietici, prima della caduta del muro di Berlino.
Ma Monti, come cattolico è un ragazzo alquanto indisciplinato. Ignora e/o trasgredisce anche uno degli insegnamenti più alti di Giovanni Paolo II:
“Mai le nuove realtà che investono con forza il processo produttivo, quali la globalizzazione della finanza, dei commerci e del lavoro devono violare la dignità e la centralità della persona umana, né la libertà e la democrazia dei popoli"”.
http://www.repubblica.it/online/cronaca/primomaggio/messa/messa.html
Sulla dignità e centralità della persona umana, il trattamento riservato agli esodati parla da sé.
Sulla libertà e democrazia dei popoli, parlano da sé certe dichiarazioni sulla cessione di quote di sovranità nazionale, dichiarazioni che furono riportate anche in questo forum; sulla democrazia in particolare parla da sé la sudditanza al mitico SPREAD, sudditanza che ha prodotto la riforma Fornero e sta producendo il progressivo smantellamento dello stato sociale.
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
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Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
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Nell'autunno del 2011 io partecipai a Bologna ad una delle prime assemblee del movimento “No debito” (Giorgio Cremaschi). Questo movimento, e la popolazione che lo incarnava, suscitarono in me una impressione ambivalente. Vidi molta purezza ideale, ma anche molta ingenuità. Mancanza di senso critico, una divisione di tipo manicheo fra il bene ed il male nel mondo. Mi parve di riscontrare i difetti dei movimenti rivoluzionari precedenti, criticati in questo stesso topic, fatto salvo un tratto di diversità: la mancanza di violenza, una proposta politica che, pur essendo decisa ed energica, era tuttavia mite e pacifica. Ed infatti si potevano affacciare al movimento, potevano prendere liberamente la parola senza subire aggressioni né aspre censure o critiche, anche dei giovani molto aperti, antidogmatici, portatori di un seme culturale diverso dal marxismo-leninismo. Tuttavia la presidenza dell'assemblea si rivolgeva costantemente al suo popolo presente in sala, con l'appellativo “compagni”, e gli oratori più collaudati che intervenivano, facevano abuso della stessa parola. Ora, il termine “compagno” è di per sé un vocabolo bellissimo, per quanto riguarda l'etimo: allude infatti alla condivisione del pane, ovvero alla forma di solidarietà e fratellanza più intensa e più pura, della quale ci sarà bisogno per salvare il mondo e la specie umana. Ma “compagno/i” è altresì una parola d'ordine del vetero-comunismo. Ossia di una visione del mondo che divide l'umanità in due classi, i “compagni” ed i loro nemici. Valgano su questo punto le mie riserve già espresse nella prima parte del presente topic. Alla riunione "No debito", mi parve dunque di riscontrare un marcato passo indietro rispetto al movimento di Giulietto Chiesa, a quello dei “No Tav”, degli “indignados” e ad altre proposte di cambiamento radicale. Questi ultimi movimenti infatti sono consapevoli di un certo dato obiettivo: ogni separazione aprioristica in classi, e perfino la divisione tradizionale del campo politico in “destra” e “sinistra”, non può più parlare al cuore delle giovani generazioni. Inoltre mi chiesi più volte che cosa stessi a fare io con quella gente da me tanto diversa, con gli eredi della battaglia perduta per il “SI'” nell'antico referendum sulla scala mobile, con gli irriducibili “compagni” che vedono e vedranno sempre il mondo in bianco e nero, o meglio in rosso e nero. Io che ho amato Romano Prodi, l'ho seguito e ammirato e ringraziato...
Ma quella sera mi entrò nella mente e nel cuore un seme, ad onta delle mie barriere di prevenzione, e del mio stesso senso critico: quando Cremaschi, oratore semplice ed affascinante, disse a più riprese: “certamente noi vogliamo ANGOSCIARE i mercati (facendo sì che l'Italia non paghi il debito pubblico) ma STARE BENE NOI!!!”
Già, angosciare i mercati e fare star bene il popolo. I più accreditati economisti ci dicono che questo non è possibile. Quella sera, io mi sorpresi a sognare, e pensai come, in cambio di una umanità più serena e conviviale, quale quella in cui mi trovavo eccezionalmente immerso, avrei potuto rinunciare all'automobile privata, al consumo alimentare abituale di carne e di pesce, e persino al piacere di concludere la serata con un modesto gelato o una birra: sarebbe bastata un poco d'acqua con qualche goccia di limone, dispensata a tutti da un pubblico bibitaro, a rendere quasi tutti più felici. In cambio di una ritrovata fratellanza, di una ritrovata sovranità nazionale, di una ritrovata (o trovata) democrazia e pace sociale, di un “welfare” salvato e rinvigorito.
(Continua)
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Nell'autunno del 2011 io partecipai a Bologna ad una delle prime assemblee del movimento “No debito” (Giorgio Cremaschi). Questo movimento, e la popolazione che lo incarnava, suscitarono in me una impressione ambivalente. Vidi molta purezza ideale, ma anche molta ingenuità. Mancanza di senso critico, una divisione di tipo manicheo fra il bene ed il male nel mondo. Mi parve di riscontrare i difetti dei movimenti rivoluzionari precedenti, criticati in questo stesso topic, fatto salvo un tratto di diversità: la mancanza di violenza, una proposta politica che, pur essendo decisa ed energica, era tuttavia mite e pacifica. Ed infatti si potevano affacciare al movimento, potevano prendere liberamente la parola senza subire aggressioni né aspre censure o critiche, anche dei giovani molto aperti, antidogmatici, portatori di un seme culturale diverso dal marxismo-leninismo. Tuttavia la presidenza dell'assemblea si rivolgeva costantemente al suo popolo presente in sala, con l'appellativo “compagni”, e gli oratori più collaudati che intervenivano, facevano abuso della stessa parola. Ora, il termine “compagno” è di per sé un vocabolo bellissimo, per quanto riguarda l'etimo: allude infatti alla condivisione del pane, ovvero alla forma di solidarietà e fratellanza più intensa e più pura, della quale ci sarà bisogno per salvare il mondo e la specie umana. Ma “compagno/i” è altresì una parola d'ordine del vetero-comunismo. Ossia di una visione del mondo che divide l'umanità in due classi, i “compagni” ed i loro nemici. Valgano su questo punto le mie riserve già espresse nella prima parte del presente topic. Alla riunione "No debito", mi parve dunque di riscontrare un marcato passo indietro rispetto al movimento di Giulietto Chiesa, a quello dei “No Tav”, degli “indignados” e ad altre proposte di cambiamento radicale. Questi ultimi movimenti infatti sono consapevoli di un certo dato obiettivo: ogni separazione aprioristica in classi, e perfino la divisione tradizionale del campo politico in “destra” e “sinistra”, non può più parlare al cuore delle giovani generazioni. Inoltre mi chiesi più volte che cosa stessi a fare io con quella gente da me tanto diversa, con gli eredi della battaglia perduta per il “SI'” nell'antico referendum sulla scala mobile, con gli irriducibili “compagni” che vedono e vedranno sempre il mondo in bianco e nero, o meglio in rosso e nero. Io che ho amato Romano Prodi, l'ho seguito e ammirato e ringraziato...
Ma quella sera mi entrò nella mente e nel cuore un seme, ad onta delle mie barriere di prevenzione, e del mio stesso senso critico: quando Cremaschi, oratore semplice ed affascinante, disse a più riprese: “certamente noi vogliamo ANGOSCIARE i mercati (facendo sì che l'Italia non paghi il debito pubblico) ma STARE BENE NOI!!!”
Già, angosciare i mercati e fare star bene il popolo. I più accreditati economisti ci dicono che questo non è possibile. Quella sera, io mi sorpresi a sognare, e pensai come, in cambio di una umanità più serena e conviviale, quale quella in cui mi trovavo eccezionalmente immerso, avrei potuto rinunciare all'automobile privata, al consumo alimentare abituale di carne e di pesce, e persino al piacere di concludere la serata con un modesto gelato o una birra: sarebbe bastata un poco d'acqua con qualche goccia di limone, dispensata a tutti da un pubblico bibitaro, a rendere quasi tutti più felici. In cambio di una ritrovata fratellanza, di una ritrovata sovranità nazionale, di una ritrovata (o trovata) democrazia e pace sociale, di un “welfare” salvato e rinvigorito.
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
Data d'iscrizione : 21.07.09
Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Una parte dei temi ai quali è dedicata questa conversazione, qualche mese fa fu oggetto di dibattito nel forum della UIL dei Beni Culturali. In un topic che conobbe anche una polemica concettuale molto accesa, ma altrettanto civile, diversi utenti di quel forum andavano confrontando posizioni di pensiero antitetiche su questi argomenti. Io mi stavo contrapponendo ad un iscritto che si presentava come “marcow”, e ve lo raccomando come interlocutore...ha una preparazione ed una lucidità impressionanti, metterebbe in difficoltà qualsiasi interlocutore-antagonista. Il confronto fra me e marcow si stava comunque dipanando in un modo costruttivo e sereno, quando un intervento sbagliato del moderatore interruppe la discussione. In palese buonafede, il moderatore, che è una persona seria ed onesta, mi richiamò ad un comportamento più corretto, minacciando sanzioni. Aveva infatti inteso come espressione antisemitica (nientemeno!) un appellativo da me usato nel rivolgermi ad un protagonista del dibattito, che si presentava come “Hiram-Abiff “, e che io avevo creduto appartenere al sesso femminile. “La Signora Israelita”, questa era stata la locuzione incriminata. In realtà l'abbaglio del moderatore affondava le sue radici in questo stesso forum, per una mia espressione di molto antecedente, usata in tutt'altro contesto discorsivo, una frase che era stata totalmente fraintesa. La mia intuizione mi suggerisce con forza, che la cattiva interpretazione del moderatore, il quale è un uomo molto impegnato e non può seguire e soppesare tutto quello che viene pubblicato on line, sia stata indotta dietro le quinte, con messaggi privati, da qualche carogna; esiste infatti una carogna che da tempo vive solo per screditarmi o attaccarmi, non avendo niente di meglio da fare. Dopo gli interventi censori fuori luogo, e le mie vibrate repliche chiarificatrici, la polemica fra me ed il moderatore divampò sempre più aspra, fino all'intervento della massima autorità dalla quale promana il forum in cui il tutto si svolgeva. Questa autorità sindacale sostanzialmente mi diede ragione. Non ebbi comunque più voglia di proseguire quel dibattito, e se lo riprendessi ora nella stessa sede potrebbe apparire una provocazione, e forse anche un comportamento discutibile sotto il profilo del decoro personale.
Ma nulla mi vieta di riprendere la questione qui, nel mio forum.
Al momento della interruzione io avevo appena introdotto il tema della DECRESCITA, quella decrescita di cui si è tanto trattato in questo stesso forum, e che io vedo intrinsecamente e ineludibilmente connessa con il programma-Cremaschi, come la CRESCITA lo è con il programma-Monti.
Marcow mi poneva una obiezione di fondo, articolata in due tesi critiche cruciali. L'obiezione: non può un singolo stato realizzare la decrescita, se questa non è una pratica planetaria, totale. Uno stato che la praticasse da solo condannerebbe infatti il proprio popolo ad un grave indebolimento o perdita di potenza, e ad una consistente perdita di benessere
(“distruzione di quote consistenti del proprio benessere e della propria potenza”).
(continua)
Una parte dei temi ai quali è dedicata questa conversazione, qualche mese fa fu oggetto di dibattito nel forum della UIL dei Beni Culturali. In un topic che conobbe anche una polemica concettuale molto accesa, ma altrettanto civile, diversi utenti di quel forum andavano confrontando posizioni di pensiero antitetiche su questi argomenti. Io mi stavo contrapponendo ad un iscritto che si presentava come “marcow”, e ve lo raccomando come interlocutore...ha una preparazione ed una lucidità impressionanti, metterebbe in difficoltà qualsiasi interlocutore-antagonista. Il confronto fra me e marcow si stava comunque dipanando in un modo costruttivo e sereno, quando un intervento sbagliato del moderatore interruppe la discussione. In palese buonafede, il moderatore, che è una persona seria ed onesta, mi richiamò ad un comportamento più corretto, minacciando sanzioni. Aveva infatti inteso come espressione antisemitica (nientemeno!) un appellativo da me usato nel rivolgermi ad un protagonista del dibattito, che si presentava come “Hiram-Abiff “, e che io avevo creduto appartenere al sesso femminile. “La Signora Israelita”, questa era stata la locuzione incriminata. In realtà l'abbaglio del moderatore affondava le sue radici in questo stesso forum, per una mia espressione di molto antecedente, usata in tutt'altro contesto discorsivo, una frase che era stata totalmente fraintesa. La mia intuizione mi suggerisce con forza, che la cattiva interpretazione del moderatore, il quale è un uomo molto impegnato e non può seguire e soppesare tutto quello che viene pubblicato on line, sia stata indotta dietro le quinte, con messaggi privati, da qualche carogna; esiste infatti una carogna che da tempo vive solo per screditarmi o attaccarmi, non avendo niente di meglio da fare. Dopo gli interventi censori fuori luogo, e le mie vibrate repliche chiarificatrici, la polemica fra me ed il moderatore divampò sempre più aspra, fino all'intervento della massima autorità dalla quale promana il forum in cui il tutto si svolgeva. Questa autorità sindacale sostanzialmente mi diede ragione. Non ebbi comunque più voglia di proseguire quel dibattito, e se lo riprendessi ora nella stessa sede potrebbe apparire una provocazione, e forse anche un comportamento discutibile sotto il profilo del decoro personale.
Ma nulla mi vieta di riprendere la questione qui, nel mio forum.
Al momento della interruzione io avevo appena introdotto il tema della DECRESCITA, quella decrescita di cui si è tanto trattato in questo stesso forum, e che io vedo intrinsecamente e ineludibilmente connessa con il programma-Cremaschi, come la CRESCITA lo è con il programma-Monti.
Marcow mi poneva una obiezione di fondo, articolata in due tesi critiche cruciali. L'obiezione: non può un singolo stato realizzare la decrescita, se questa non è una pratica planetaria, totale. Uno stato che la praticasse da solo condannerebbe infatti il proprio popolo ad un grave indebolimento o perdita di potenza, e ad una consistente perdita di benessere
(“distruzione di quote consistenti del proprio benessere e della propria potenza”).
(continua)
italiota- Messaggi : 36
Data d'iscrizione : 21.07.09
Re: Un vecchietto in rivolta
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Per quanto riguarda la perdita di potenza militare, questo problema per me non si pone. E' infatti un punto fermo costitutivo del programma-Cremaschi la rinuncia agli attuali investimenti in potenza militare, e l'abbandono di tutte le missioni di pace all'estero. Voglio essere del tutto franco: questa opzione mi costa sofferenza. Perché IO SO che l'Italia fu liberata dagli Americani, non dai nostri partigiani come noi amiamo credere (gli artefici della Resistenza nostrana furono di certo degli eroi, ma la stessa Resistenza fu un fenomeno ben poco rilevante dal punto di vista militare) e Bologna, la mia città, fu liberata dai poveri Polacchi. Se i nostri liberatori di ieri avessero avuto lo spirito del popolo “NO DEBITO”, NON SAREMMO STATI LIBERATI DAL NAZISMO.
Inoltre, io ho letto un libro sconvolgente e coinvolgente, che quasi tutti hanno letto: “IL CACCIATORE DI AQUILONI”. Risulta evidente da quella lettura, come gli eserciti occidentali abbiano salvato un popolo dalle umiliazioni, dal terrore e dalle torture. Inoltre, io ho seguito con attenzione la rubrica telematica di Don Giorgio De Capitani: più pacifista di lui non c'è nessuno, nessuno è più contrario alla nostra presenza militare in Afghanistan. Nessuno odia i parà della Folgore quanto lui. Eppure, perfino tra le righe del suo blog, nei documenti che egli porta per sostenere le proprie tesi, a saper leggere si trova con evidenza, si trova addirittura scritto a chiare lettere: i parà della Folgore sono amati dalla popolazione locale, sono percepiti e valutati come dei liberatori. E salvano la povera gente dalle mostruosità dei talebani. Io non ho dubbi: i nostri soldati in Afghanistan non fanno soltanto del male, fanno anche del bene. Eppure nel mio piccolo io supporto il programma del comitato “NO DEBITO”, un programma che prevede l'abbandono di questo e di ogni altro futuro impegno militare umanitario, in territorio straniero. Ma questa mia apparente contraddizione si spiega in un modo solo: non ci possiamo più permettere di aiutare i popoli oppressi. Uno zoppo non può aiutare un altro zoppo a camminare.
A differenza del popolo che segue Cremaschi, e di una certa sinistra radicale, anche io sono per l'abbandono di certe imprese militari, ma provando angoscia per questa scelta, non euforia. E qui sta il mio senso di disagio, al quale già ho fatto cenno in questo topic, nell'immergermi in quella fascia di popolazione, che mi pare tanto acritica.
Ma riprendendo lo spunto critico di marcow, una Italia della decrescita solitaria sarebbe più debole militarmente anche se mantenesse il suo esercito e le armi per esclusive finalità difensive. E qui io obietto con l'esclusivo buon senso: ci sono tanti stati deboli militarmente, più di quanto non lo sarebbe una Italia della “decrescita unilaterale”, e nessuno li invade. Perché qualcuno dovrebbe invaderci? Non abbiamo materie prime, e i nostri campi da coltivare quasi non bastano per noi, tanto siamo fitti sul nostro suolo. Ma se qualcuno poi ci invadesse ugualmente...un paese povero, ma unito in un tessuto connettivo di idealità condivise...sarebbe una “brutta bestia” da affrontare per qualunque esercito invasore, come lo furono i Vietnamiti del Nord per gli Americani, come lo furono gli Ateniesi per i Persiani al tempo di Milziade (la battaglia di Maratona fu vinta dagli ateniesi contro un nemico cinque volte più consistente sotto il profilo numerico, e meglio equipaggiato). Gli esempi si potrebbero moltiplicare...
(Continua)
italiota- Messaggi : 36
Data d'iscrizione : 21.07.09
Re: Un vecchietto in rivolta
Continua:
Il mio “avversario” amico marcow, attribuiva ad una ipotetica pratica della decrescita unilaterale, l'inconveniente della distruzione di quote consistenti di benessere, per la popolazione che attuasse o subisse questo processo economico pianificato.
Io possiedo un vecchio vocabolario “cartaceo” che è stimato tuttora come uno dei migliori: è lo “Zingarelli” del 1984.
Vi si legge, alla voce “benessere”: "1) buono stato di salute | est. Stato di soddisfazione interiore generato dal giusto equilibrio di fattori psico-fisici".
Stando a questa prima accezione, io non ho dubbi che una civiltà della DECRESCITA assicurerebbe più salute ai suoi cittadini che non una “civiltà” consumistica, o della CRESCITA. Mi voglio mettere ad argomentare nella posizione più svantaggiosa: io da giovanissimo visitai la spaventosa Romania del terribile tiranno Ceausescu: non avevo e non ho dubbi che non sia auspicabile per nessun popolo un regime come quello; un regime che però aveva l'unico pregio del non-consunismo e della non-crescita del PIL. Ricordo bene come la popolazione locale potesse gustare assai di rado una bistecca di manzo. Ma quelle poche volte... che carne, ragazzi!!! Quanto era spessa, difficile da tagliare una bistecca di quelle, e quanto era succosa... carne che non proveniva dagli allevamenti intensivi, che sono frutto e condizione della “civiltà” della crescita. Mangiare di quel cibo, anche molto di meno, assicura certamente una migliore salute fisica. E mi torna alla mente, oltre alla mia esperienza passata, quella “futura”, ovvero quella da me vagheggiata come futuribile: quando io sognai un momento conviviale, dopo una sana “ricreazione politica” collettiva (come ho scritto in un post più sopra), un convivio consumato attorno a bicchieri di acqua pura con qualche goccia di limone...non avevo e tuttora non ho dubbi che sarebbe proprio quello, uno stile di vita più sano, che non la pizza di mezzanotte o il gelato ipercalorico, che viene assunto più per il piacere del palato, o per colmare altre carenze, che non per un bisogno alimentare.
Io, che vivo di incertezze, non ho dunque alcuna incertezza in merito: UNA CIVILTA' DELLA DECRESCITA, INCENTRATA SUL CULTO DELL'ESSENZIALE ANZICHE' DEL SUPERFLUO E DEGLI ECCESSI, SAREBBE PIU' VANTAGGIOSA PER IL BENESSERE FISICO.
(Continua)
Il mio “avversario” amico marcow, attribuiva ad una ipotetica pratica della decrescita unilaterale, l'inconveniente della distruzione di quote consistenti di benessere, per la popolazione che attuasse o subisse questo processo economico pianificato.
Io possiedo un vecchio vocabolario “cartaceo” che è stimato tuttora come uno dei migliori: è lo “Zingarelli” del 1984.
Vi si legge, alla voce “benessere”: "1) buono stato di salute | est. Stato di soddisfazione interiore generato dal giusto equilibrio di fattori psico-fisici".
Stando a questa prima accezione, io non ho dubbi che una civiltà della DECRESCITA assicurerebbe più salute ai suoi cittadini che non una “civiltà” consumistica, o della CRESCITA. Mi voglio mettere ad argomentare nella posizione più svantaggiosa: io da giovanissimo visitai la spaventosa Romania del terribile tiranno Ceausescu: non avevo e non ho dubbi che non sia auspicabile per nessun popolo un regime come quello; un regime che però aveva l'unico pregio del non-consunismo e della non-crescita del PIL. Ricordo bene come la popolazione locale potesse gustare assai di rado una bistecca di manzo. Ma quelle poche volte... che carne, ragazzi!!! Quanto era spessa, difficile da tagliare una bistecca di quelle, e quanto era succosa... carne che non proveniva dagli allevamenti intensivi, che sono frutto e condizione della “civiltà” della crescita. Mangiare di quel cibo, anche molto di meno, assicura certamente una migliore salute fisica. E mi torna alla mente, oltre alla mia esperienza passata, quella “futura”, ovvero quella da me vagheggiata come futuribile: quando io sognai un momento conviviale, dopo una sana “ricreazione politica” collettiva (come ho scritto in un post più sopra), un convivio consumato attorno a bicchieri di acqua pura con qualche goccia di limone...non avevo e tuttora non ho dubbi che sarebbe proprio quello, uno stile di vita più sano, che non la pizza di mezzanotte o il gelato ipercalorico, che viene assunto più per il piacere del palato, o per colmare altre carenze, che non per un bisogno alimentare.
Io, che vivo di incertezze, non ho dunque alcuna incertezza in merito: UNA CIVILTA' DELLA DECRESCITA, INCENTRATA SUL CULTO DELL'ESSENZIALE ANZICHE' DEL SUPERFLUO E DEGLI ECCESSI, SAREBBE PIU' VANTAGGIOSA PER IL BENESSERE FISICO.
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italiota- Messaggi : 36
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VIVA I BIDELLI :: *Gli altri sono "i belli" e noi siamo "i bidelli"* :: Temi politici, sociali ed un po' filosofici
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