IO E LA "DECRESCITA FELICE"
VIVA I BIDELLI :: *Gli altri sono "i belli" e noi siamo "i bidelli"* :: Temi politici, sociali ed un po' filosofici :: La pagina delle contraddizioni
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IO E LA "DECRESCITA FELICE"
In questo forum tutto mio, ed anche in altri in cui sono ospite, con diversi post ho professato la mia scelta ideologica, tra le prospettive attualmente in gioco per il presente ed il futuro dell'Umanità, la mia scelta di campo a favore della DECRESCITA. Se è vero che l'eroismo consiste nell'andar deliberatamente contro se stessi, la mia opzione contro la crescita del PIL, e a favore della decrescita, è decisamente eroica, pur nei limiti della mia modesta persona. Meno male che mentre porto avanti contro i miei gusti l'ideale-sogno della decrescita, i cui correlati e corollari confliggono con la mia componente emotiva, che li rigetta, allo stesso tempo cresce in me la ripugnanza per le conseguenze negative (alcune già attuali) della crescita. Questo “schifo per la crescita” mi allevia del peso di aver sposato la DECRESCITA. Ovvero, una moglie terribile, per me.
La mia parte emotiva rigetta dunque quello che la parte razionale giudica inevitabile ed auspicabile per il futuro del genere umano.
La mia emotività rifiuta:
1) il lavoro manuale, che in una futura civiltà contadina improntata alla DECRESCITA sarà difficile poter evitare per chiunque abbia due mani.
Due mani... io con le mie ho un pessimo rapporto. Se è vero che ogni persona allenata all'introspezione possiede una buona conoscenza di sé, posso dire di essere così ANCHE per cause native. Se ben ricordo, alcuni decenni or sono le ricerche di Berger e Luckmann (“La realtà come costruzione sociale”) appurarono, o corroborarono, il dato che gli esseri umani non nascono come “tabulae rasae”, ma vi sono nel loro cervello, per così dire delle “soglie di sbarramento” all'ingresso di stimolazioni ambientali difformi dal loro programma genetico individuale. E così pure vi sono preferenze individuali native così spiccate da divenire QUASI dei fattori di rigido determinismo, dei binari obbligati per il comportamento.
Io dunque sono poco portato alla manualità dalla mia stessa natura. Ma l'educazione ha fatto il resto. Nacqui mancino, e mi fu estirpato questo pregio con la violenza, a suon di grida e di sberle, da una maestra che dieci anni prima dirigeva una casa del fascio, in campagna. A nessuno fa bene la correzione dal mancinismo, avrebbero insegnato gli psicologi qualche anno dopo, e nel mio caso fu particolarmente violenta, e quindi un trauma doppio. Le mie mani presero a balbettare, quando venivano impegnate in esercizi di coordinazione. E non hanno mai smesso di farlo, ogni qual volta mi si presenti un esercizio nuovo, non ancora soggiogato dall'abitudine. Il mio interesse naturale mi ha portato completamente nella direzione di altre battaglie, intellettive e concettuali, per cui non ho mai impegnato alla morte i miei neuroni per riparare questo guasto che mi è stato prodotto dalla “educazione”. Una civiltà della DECRESCITA mi costringerebbe a fare poco o tanto il contadino, e controvoglia potrei imparare, anche se non mi piace affatto; ma mi costringerebbe anche e soprattutto a fare il “ciappinaro”, a fare e saper fare di tutto, in un mondo dove non ci sarebbero più l'idraulico né l'elettricista né il panificatore per i bisogni della quotidianità della gente comune, non ci sarebbe più nemmeno il denaro per pagarsi questi servizi specialistici. E pensando a questo io comincio a stare veramente male, io che amo il puro ed esclusivo uso dell'intelletto come gli aristocratici peripatetici che passeggiavano con il Prof. Aristotele (tanto, c'erano gli schiavi, per le incombenze meno “nobili”).
(Continua)
La mia parte emotiva rigetta dunque quello che la parte razionale giudica inevitabile ed auspicabile per il futuro del genere umano.
La mia emotività rifiuta:
1) il lavoro manuale, che in una futura civiltà contadina improntata alla DECRESCITA sarà difficile poter evitare per chiunque abbia due mani.
Due mani... io con le mie ho un pessimo rapporto. Se è vero che ogni persona allenata all'introspezione possiede una buona conoscenza di sé, posso dire di essere così ANCHE per cause native. Se ben ricordo, alcuni decenni or sono le ricerche di Berger e Luckmann (“La realtà come costruzione sociale”) appurarono, o corroborarono, il dato che gli esseri umani non nascono come “tabulae rasae”, ma vi sono nel loro cervello, per così dire delle “soglie di sbarramento” all'ingresso di stimolazioni ambientali difformi dal loro programma genetico individuale. E così pure vi sono preferenze individuali native così spiccate da divenire QUASI dei fattori di rigido determinismo, dei binari obbligati per il comportamento.
Io dunque sono poco portato alla manualità dalla mia stessa natura. Ma l'educazione ha fatto il resto. Nacqui mancino, e mi fu estirpato questo pregio con la violenza, a suon di grida e di sberle, da una maestra che dieci anni prima dirigeva una casa del fascio, in campagna. A nessuno fa bene la correzione dal mancinismo, avrebbero insegnato gli psicologi qualche anno dopo, e nel mio caso fu particolarmente violenta, e quindi un trauma doppio. Le mie mani presero a balbettare, quando venivano impegnate in esercizi di coordinazione. E non hanno mai smesso di farlo, ogni qual volta mi si presenti un esercizio nuovo, non ancora soggiogato dall'abitudine. Il mio interesse naturale mi ha portato completamente nella direzione di altre battaglie, intellettive e concettuali, per cui non ho mai impegnato alla morte i miei neuroni per riparare questo guasto che mi è stato prodotto dalla “educazione”. Una civiltà della DECRESCITA mi costringerebbe a fare poco o tanto il contadino, e controvoglia potrei imparare, anche se non mi piace affatto; ma mi costringerebbe anche e soprattutto a fare il “ciappinaro”, a fare e saper fare di tutto, in un mondo dove non ci sarebbero più l'idraulico né l'elettricista né il panificatore per i bisogni della quotidianità della gente comune, non ci sarebbe più nemmeno il denaro per pagarsi questi servizi specialistici. E pensando a questo io comincio a stare veramente male, io che amo il puro ed esclusivo uso dell'intelletto come gli aristocratici peripatetici che passeggiavano con il Prof. Aristotele (tanto, c'erano gli schiavi, per le incombenze meno “nobili”).
(Continua)
Davide Selis- Messaggi : 48
Data d'iscrizione : 21.07.09
Re: IO E LA "DECRESCITA FELICE"
Continua:
Si è detto nel post precedente di una personale, motivata insofferenza per il lavoro manuale. Ma questa repulsione non è stata rappresentata in tutta la sua intensità, né potrebbe esserlo in poche righe. Aggiungerò quindi soltanto, che io amo intensissimamente la civiltà post-moderna per l'estrema parcellizzazione del lavoro, per il fatto che ognuno si specializza in una sola operazione e toglie agli altri il peso di compierla, eseguendola inoltre nel migliore dei modi sotto il profilo tecnico. Quando Maurizio Pallante, superman che sa fare di tutto e così facendo si risparmia tante spese, si permette di guardare dall'alto in basso noi figli esemplari della civiltà post-moderna, noi ai quali lo stesso Pallante rinfaccia di non essere adatti al mondo nuovo, quel mondo verso il quale saremmo incamminati volenti o nolenti (lo rinfaccia più o meno con queste parole :”Tu non sai fare altro che muovere il mouse, per forza devi guadagnare tanto per acquistare tutti i servizi che ti occorrono”)... quando Pallante si atteggia così, io che sono molto più simile all'inetto del mouse da lui disprezzato che non a lui stesso, odio Pallante. Ed odio la DECRESCITA.
…............................................................................................
Vi è un altro aspetto di collisione frontale tra la mia soggettività e la DECRESCITA:
questa teoria-utopia contempla una umanità futura nella quale non esistano più gli stati-nazione, un mondo organizzato e suddiviso in villaggi autosufficienti. IO AMO LE METROPOLI, NON I VILLAGGI! Le metropoli con caratteristiche sempre più da fantascienza (ricordate il film “Blade Runner”?). La vita in un villaggio, con il controllo sociale della pubblica opinione sempre addosso, con la mancanza di intimità e di piena libertà individuale, mi suscita orrore ed angoscia. Sono un topo (sic) metropolitano per vocazione: la vita in un cosmo cittadino dove c'è tutto ed il contrario di tutto, dove ci si muove velocemente da un ambiente all'altro grazie alla tecnica, dove si apprezza massimamente l'intimità della propria tana grazie al contrasto con la dispersione esterna, dove vi è ricchezza massima di stimoli, dove si può trovare facilmente il soddisfacimento di ogni bisogno... mi dà un senso di libertà e di potenza, una ebbrezza alla quale non so come poter rinunciare...
(Continua)
Si è detto nel post precedente di una personale, motivata insofferenza per il lavoro manuale. Ma questa repulsione non è stata rappresentata in tutta la sua intensità, né potrebbe esserlo in poche righe. Aggiungerò quindi soltanto, che io amo intensissimamente la civiltà post-moderna per l'estrema parcellizzazione del lavoro, per il fatto che ognuno si specializza in una sola operazione e toglie agli altri il peso di compierla, eseguendola inoltre nel migliore dei modi sotto il profilo tecnico. Quando Maurizio Pallante, superman che sa fare di tutto e così facendo si risparmia tante spese, si permette di guardare dall'alto in basso noi figli esemplari della civiltà post-moderna, noi ai quali lo stesso Pallante rinfaccia di non essere adatti al mondo nuovo, quel mondo verso il quale saremmo incamminati volenti o nolenti (lo rinfaccia più o meno con queste parole :”Tu non sai fare altro che muovere il mouse, per forza devi guadagnare tanto per acquistare tutti i servizi che ti occorrono”)... quando Pallante si atteggia così, io che sono molto più simile all'inetto del mouse da lui disprezzato che non a lui stesso, odio Pallante. Ed odio la DECRESCITA.
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Vi è un altro aspetto di collisione frontale tra la mia soggettività e la DECRESCITA:
questa teoria-utopia contempla una umanità futura nella quale non esistano più gli stati-nazione, un mondo organizzato e suddiviso in villaggi autosufficienti. IO AMO LE METROPOLI, NON I VILLAGGI! Le metropoli con caratteristiche sempre più da fantascienza (ricordate il film “Blade Runner”?). La vita in un villaggio, con il controllo sociale della pubblica opinione sempre addosso, con la mancanza di intimità e di piena libertà individuale, mi suscita orrore ed angoscia. Sono un topo (sic) metropolitano per vocazione: la vita in un cosmo cittadino dove c'è tutto ed il contrario di tutto, dove ci si muove velocemente da un ambiente all'altro grazie alla tecnica, dove si apprezza massimamente l'intimità della propria tana grazie al contrasto con la dispersione esterna, dove vi è ricchezza massima di stimoli, dove si può trovare facilmente il soddisfacimento di ogni bisogno... mi dà un senso di libertà e di potenza, una ebbrezza alla quale non so come poter rinunciare...
(Continua)
Davide Selis- Messaggi : 48
Data d'iscrizione : 21.07.09
Re: IO E LA "DECRESCITA FELICE"
Continua:
Avevo un mio cavallo di battaglia, nelle polemiche contro i leghisti e contro il popolo gretto che non vuole accogliere gli extracomunitari (anche quando è possibile farlo); contro coloro che rivendicano la sacralità delle tradizioni locali, tradizioni che secondo loro non dovrebbero essere contaminate da altre culture; contro quelli che rivendicano il possesso della propria città e sostengono “siamo a casa nostra, nessuno ci deve imporre o far pesare stili di vita o usanze che a noi non garbano”.
Io ero solito dire a tutti costoro, che nella concezione moderna, o meglio post-moderna della cittadinanza, nell'unica concezione compatibile con la realtà d'oggi e soprattutto con quella di domani, LA CITTà NON è DEI SUOI ABITANTI TRADIZIONALI. LA CITTA' E' UN CONTENITORE VUOTO, A DISPOSIZIONE DI CHI CI VA A VIVERE, RISPETTA LE LEGGI VIGENTI IN QUEL LUOGO, E CONTRIBUISCE CON IL PROPRIO LAVORO AL BENESSERE DELLA COMUNITA' LOCALE.
La mobilità planetaria degli individui e delle famiglie mi sembrava un flusso che non poteva e non doveva essere interrotto, un flusso che genera ricchezza di esperienze, un flusso che avrebbe potuto realizzarsi ANCHE senza traumi e nella gioia. Mi esaltava e mi esalta la presenza nella mia città di tanti “diversi” con i quali interagire, se questi sono “sistemati” e non violenti, e se tale fenomeno di integrazione può avvenire senza violenza da entrambe le parti (coloro che vengono integrati ed il tessuto sociale che li assimila) il mio habitat diventa un microcosmo, diventa più bello, più ricco, più vivace e stimolante.
Sembra che questa mia concezione, della CITTA' DI TUTTI, sia già stata condannata dalla realtà d'oggi: l'Italia non può più accogliere, non vi è lavoro nemmeno per la popolazione locale, e gli immigrati che non possono avere un lavoro finiscono per delinquere o per aumentare l'accattonaggio, già tanto pesante anche per chi non lo pratica e per chi non lo sostiene di tasca propria. La mia concezione pare essere la SOVRASTRUTTURA adeguata al mondo di pochi anni fa, non alla STRUTTURA attuale; ancor meno pare adeguabile al mondo di domani, per come si preannuncia, e meno ancora alle mie prospettive futuribili di DECRESCITA. E questo molto mi duole: il mio ideale della DECRESCITA mi mette in contraddizione con quanto predicavo con passione, mi tappa la bocca nelle polemiche con i leghisti ed i campanilisti gretti, dà ragione a loro e non a me, mortifica lo slancio di generosa accoglienza e la concezione della mobilità planetaria, disintegra una prospettiva che mi dava l'ebbrezza. Opprime il mio universalismo antropologico, il mio internazionalismo sociale. Perché io sono intimamente e fortissimamente internazionalista, non localista e campanilista. La DECRESCITA che ho sposato fa pugni con questa parte di me, la mortifica e forse la uccide.
(Continua)
Avevo un mio cavallo di battaglia, nelle polemiche contro i leghisti e contro il popolo gretto che non vuole accogliere gli extracomunitari (anche quando è possibile farlo); contro coloro che rivendicano la sacralità delle tradizioni locali, tradizioni che secondo loro non dovrebbero essere contaminate da altre culture; contro quelli che rivendicano il possesso della propria città e sostengono “siamo a casa nostra, nessuno ci deve imporre o far pesare stili di vita o usanze che a noi non garbano”.
Io ero solito dire a tutti costoro, che nella concezione moderna, o meglio post-moderna della cittadinanza, nell'unica concezione compatibile con la realtà d'oggi e soprattutto con quella di domani, LA CITTà NON è DEI SUOI ABITANTI TRADIZIONALI. LA CITTA' E' UN CONTENITORE VUOTO, A DISPOSIZIONE DI CHI CI VA A VIVERE, RISPETTA LE LEGGI VIGENTI IN QUEL LUOGO, E CONTRIBUISCE CON IL PROPRIO LAVORO AL BENESSERE DELLA COMUNITA' LOCALE.
La mobilità planetaria degli individui e delle famiglie mi sembrava un flusso che non poteva e non doveva essere interrotto, un flusso che genera ricchezza di esperienze, un flusso che avrebbe potuto realizzarsi ANCHE senza traumi e nella gioia. Mi esaltava e mi esalta la presenza nella mia città di tanti “diversi” con i quali interagire, se questi sono “sistemati” e non violenti, e se tale fenomeno di integrazione può avvenire senza violenza da entrambe le parti (coloro che vengono integrati ed il tessuto sociale che li assimila) il mio habitat diventa un microcosmo, diventa più bello, più ricco, più vivace e stimolante.
Sembra che questa mia concezione, della CITTA' DI TUTTI, sia già stata condannata dalla realtà d'oggi: l'Italia non può più accogliere, non vi è lavoro nemmeno per la popolazione locale, e gli immigrati che non possono avere un lavoro finiscono per delinquere o per aumentare l'accattonaggio, già tanto pesante anche per chi non lo pratica e per chi non lo sostiene di tasca propria. La mia concezione pare essere la SOVRASTRUTTURA adeguata al mondo di pochi anni fa, non alla STRUTTURA attuale; ancor meno pare adeguabile al mondo di domani, per come si preannuncia, e meno ancora alle mie prospettive futuribili di DECRESCITA. E questo molto mi duole: il mio ideale della DECRESCITA mi mette in contraddizione con quanto predicavo con passione, mi tappa la bocca nelle polemiche con i leghisti ed i campanilisti gretti, dà ragione a loro e non a me, mortifica lo slancio di generosa accoglienza e la concezione della mobilità planetaria, disintegra una prospettiva che mi dava l'ebbrezza. Opprime il mio universalismo antropologico, il mio internazionalismo sociale. Perché io sono intimamente e fortissimamente internazionalista, non localista e campanilista. La DECRESCITA che ho sposato fa pugni con questa parte di me, la mortifica e forse la uccide.
(Continua)
Davide Selis- Messaggi : 48
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